Dybbuk-storia © Photo: Maurizio Buscarino
 

Dybbuk - Note d'autore

Un Dybbuk.

Avadim Ajinu. Fummo schiavi: ha ripetuto ogni famiglia ebraica nei giorni del Pesach (Pasqua) tutti gli anni, per millenni, per ricordare di discendere da un popolo di schiavi riscattato al fine di dare ad un immane progetto di liberazione basato su un'etica irriducibilmente anti idolatrica, privatissima di un popolo e al tempo stesso rivolta a tutta l'umanità.

Con lo stesso spirito risuoneranno nei secoli a venire le parole "fummo nella Shoah" per ricordare il punto di non ritorno varcato dall'uomo. Per ricordare di ricordare. Perchè senza memoria non c'è cultura possibile.

Quanto a me personalmente sono "posseduto" da un dybbuk, lo spirito di un morto che non ha e non avrà pace. Non so bene a chi appartenga, chiede solo di non essere dimenticato, di trovare a ogni generazione un ospite che si preoccupi per lui perchè non potendo morire continui almeno a vivere. Pur non conoscendone la carta d'identità mi piace pensare che fosse un uomo comune e non dei migliori. Nè un santo. Nè un eroe. Per lui e quelli come lui, per noi e quelli come noi, canto queste canzoni. Alte e basse, belle e meno belle. Sono le canzoni della sua vita. Per la vita.

Memoria e vita.

Da molto tempo sapevo che presto o tardi avrei messo in scena un Dybbuk. Questo tema di possessione che proviene dal mondo ebraico dell'est è in qualche misura ineludibile per chi si immerga senza reticenze in questo mondo. Il dybbuk (anima di un essere umano la cui vita è stata spezzata prematuramente con violenza e che torna a possedere un vivo) mi appare in qualche misura la fantasmatizzazione che frequentemente il mondo esterno ha fatto dell'ebreo e talvolta perversamente anche un ebreo ha potuto autofantasmatizzarsi come tale.Per quanto mi riguarda mi dibatto in un'inquietudine dialettica: sono posseduto da un dybbuk, sono io stesso un dybbuk o sono il dybbuk di me stesso?

Le ragioni personali e quelle professionali negli spettacoli che mi hanno visto autore e attore sono sempre state unite e separate da un confine puramente virtuale. Un'idea esile ma ossessiva mi invade in un momento preciso e arriva progressivamente ad occupare il mio territorio mentale ed emotivo con crescente urgenza, non c'è verso di ridurla alla ragione.

Questa volta ha assunto la forma di un'equazione necessaria: Dybbuk-Shoah. La Shoah riguarda l'umanità tutta, perchè il progetto di annientamento prevedeva l'estinzione non solo di due popoli diasporici, l'ebraico e lo zingaro, ma anche di due popolazioni per così dire trasversali, gli omosessuali e i menomati. Riguarda tutti perchè lì fallisce la modernità, il mito filosofico dell'occidente a dispetto delle patetiche teorie dell'anomalia storica del fenomeno o quelle quanto mai miserabili del revisionismo. Ma per quanto riguarda lo specifico ebraico, l'annientamento ha assunto lo sgomento della forma tautologica: gli ebrei vanno eliminati perchè ebrei. L'affastellarsi affannoso delle ragioni della ragione è fallito anch'esso. Personalmente ho l'immotivabile sensazione che gli ebrei siano stati annientati a causa del loro "inesplicabile" rapporto con la Torah, la legge, l'ethos e quel complesso di relazioni spirituali che trascendono il concetto di religione così come quello tronfiamente "laico" di cultura. L'ebreo per secoli si è dondolato con quei rotoli di pergamena come ci si dondola con la propria libertà, con la libertà tout court, con ciò che di piùintimo e prezioso esiste nella santità dell'uomo in sè come nell'altro da sè, anche se oggi molti degli stessi ebrei sembrano averlo rimosso.

Poche labili tracce legano me e la mia vita alla Shoah: il ricordo del cappotto di profuga di mia madre che vidi da piccolo e sul cui bavero l luogo della stella aveva l'aspetto di un alone più scuro sulla stoffa ormai lisa e stinta e alcuni bottoni gialli, anch'essi a forma di stella di Davide, che galleggiavano allegramente fra altri bottoni in una scatola di metallo con scritte in cirillico e che con gli anni sparirono insieme alla scatola, apparentemente senza che la loro estinzione fosse provocata da un gesto deliberato. Eppure il peso di quei segni ormai innocui si è ingigantito con l'andar del tempo. Nel loro minuscolo spazio si è accumulata tutta l'energia del non raccontato, del non detto, della ritrosia dei miei genitori (vessati ma scampati alla furia perchè residenti in Bulgaria, insieme alla Danimarca, fu la sola che seppe opporsi). Poi crescendo sono arrivate le informazioni, i libri, i memoriali e tutto ciò che il

mondo ebraico e non metteva a disposizione di questa energia dell'assenza. Ma come dire l'indicibile o peggio rappresentare l'rrappresentabile.

Con Mara, irrinunciabile compagna per questo viaggio nell'impossibile, abbiamo tentato con un "rito" consapevolmente sottratto alle tentazioni realistiche. Ci siamo affidati a echi sonori: la musica, la lingua (lo yiddish anche questa volta torna con la sua irresistibile esperessività, le cui fibre colpite a morte restano cionondimeno pulsanti di vita possibile). Siamo ricorsi a immagini straniate, a personaggi emblematici seppure reali. Ma è soprattutto a partire dell'orchestrina che tutto ha preso forma. Da sempre mi sono rappresentato con un'orchestrina ed era in qualche modo scritto che l'orchestrina del Lager, ad un tempo testimone e vittima, fosse il dybbuk che possiede me vivo. L'orchestrina in generale e a maggior ragione quella in particolare, mi appare come un microcosmo gravato di un paradossale privilegio: l'ineffabile dono dell'ubiquità. Perchè questa piccola societàumana è hic et nunc nella sua fisicità, ma nel fluire del suo linguaggio è simultaneamente nel passato, nel presente, nel futuro. E la musica sale a provocare il grido, la parola, il canto e con loro l'imperativo etico di essere con la memoria perchè la vita sia ancora possibile.

Moni Ovadia

   
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