Azioni di gruppo nel teatro del novecento
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  La messa in scena di masse e folle è problematica molto sentita e dibattuta nella drammaturgia moderna e contemporanea. Paradossalmente, però, il teatro del Novecento si inaugura con una grande rivoluzione che sembra mettere in scacco questa, per così dire, 'velleità'. Si tratta dell'istanza naturalistica del teatro di Konstantin Sergeevi_ Stanislavskij (1863-1938), il cui obiettivo dichiarato è rappresentare una tranche de vie e che per riuscire in quest'intento istituisce addirittura lo strumento espressivo della quarta parete, attraverso cui il pubblico può vedere dall'esterno gli attori che all'interno di un ambiente rappresentano appunto 'la vita'.

 

Anche là dove si possa disporre di uno spazio scenico enorme, si può ben comprendere come sulla base di questi presupposti teorici riesca impossibile rappresentare in termini naturalistici una folla, se pur piccola, e a maggior ragione una massa popolare. Tuttavia Stanislavskij era un uomo di grande intelligenza, di grande acume, e coltivava in seno la sua contraddizione, colui che lo avrebbe immediatamente smontato e negato, cioè il vero grande genio istitutore del teatro nel Novecento: Vsevolod _mil'evi_ Mejerchol'd (1874-1940).

Attore della compagnia del "Teatro d'Arte" di Mosca guidata da Stanislavskij, il quale a un certo punto gli affida la direzione del nuovo "Teatro Studio", dove egli potrà mettere in atto quelle sperimentazioni che lo allontaneranno poi definitivamente dallo stesso Stanislavskij, Mejerchol'd elabora infatti un concetto di attore, di relazione fra attore e pubblico e di funzione del regista in chiave totalmente anti-naturalistica. Giunge progressivamente a distruggere la quarta parete ed elabora i principi della biomeccanica che condizioneranno definitivamente da qui in avanti il lavoro dell'attore, il quale diventa una sorta di meccanico del 'motore corpo', di cui mette in gioco tutte le risorse dall'espressività molteplice in maniera non realistica. Ma soprattutto Mejerchol'd, in sintonia con un altro grandissimo iniziatore del teatro del Novecento, il britannico Edward Gordon Craig (1872-1966), teorizza il fatto che il vero creatore teatrale non è il drammaturgo ma il regista, che conduce alla vera, grande rivoluzione del teatro quale scrittura scenica.

Pur riconoscendo la grandezza e gli esiti prodigiosi del teatro naturalista e tralasciando per il momento le forme teatrali epico-narrative rappresentate dai cantastorie di tespiana memoria su cui torneremo in seguito, queste sono a mio avviso le premesse che permetteranno al teatro del Novecento nel suo specifico di rappresentare sulla scena le folle attraverso il dinamismo dei corpi e il dinamismo della voce di piccoli gruppi di attori.

Questo faranno alcuni dei grandi gruppi della scena novecentesca. Bertold Brecht (1898-1956), con il suo teatro epico e il suo modo personalissimo di rendere protagoniste le masse, meriterebbe da solo una riflessione lunghissima in merito. Ma una capacità straordinaria di mettere in scena le masse in modo anti-naturalistico è già presente proprio in uno dei grandi allievi di Mejerchol'd, il regista cinematografico Sergej Michajlovi_ _jzen_tejn (1898-1948).

Quando noi vediamo nel suo film Ottobre (1928) le masse proletarie in sciopero – il cinema rispetto al teatro può permettersi la presenza in scena di mille e più comparse – colte, a mio avviso in maniera totalmente anti-naturalistica, nei momenti della loro individualità, con i singoli visi ripresi in modo espressionista dal basso che emergono dalla folla degli operai in corsa verso la fabbrica in procinto di attivare i processi che porteranno alla Rivoluzione d'ottobre, questa è appunto la lezione che viene da Mejerchol'd e che attraverserà tutto il Novecento.

Un altro grande maestro, di cui ho avuto il grande privilegio di essere amico e allievo, è stato in tal senso il polacco Tadeusz Kantor (1915-1990), che nell'evocare tutta una temperie, una gente, attraverso un piccolo gruppo, dimostra anche lui di raccogliere la lezione sia di Mejerchol'd che di Gordon Craig. Nel celebre spettacolo Wielopole Wielopole (1980), che ricostruisce le vicende storiche della cittadina polacca che ha dato i natali al drammaturgo, i cui abitanti diventano protagonisti di uno spettacolo che nelle vicende della prima guerra mondiale visualizza gli effetti torturanti della memoria personale attraverso immagini di strazio e violenza, i soldati che hanno a lungo combattuto vengono rappresentati stinti, con colori totalmente innaturali, in una sorta di lillà terreo, come dei manichini impegnati in una coreografia meccanica, in linea con la teoria dell'attore-manichino. È proprio questa raffigurazione anti-naturalistica, a metà fra la marionetta e il cadavere animato dall'ultimo impulso prima del rigor mortis, che consente a Kantor, qui e in quasi tutti i suoi spettacoli, di rappresentare in maniera espressiva il battaglione dei soldati attraverso la 'piccola folla' della compagnia teatrale. Del resto, il tentativo di racchiudere i movimenti di una piccola folla in un ambito naturalistico è sempre destinato a fallire, non solo in ambito teatrale ma anche nel cinema e addirittura nel documentario, in quanto ogni documentarista riprende sempre secondo un'ottica personale e rimanda a un'espressione che è diversa da quella di un altro documentarista.

Un altro grande contributo che Mejerchol'd offre alla possibilità di mettere in scena la folla o il popolo è quello di assegnare al pubblico un ruolo diverso da quello, per così dire, di voyeur conferitogli dal teatro naturalistico. Per il regista russo, infatti, il pubblico non è semplice spettatore ma è parte stessa del teatro, deve essere in qualche modo parte viva e pulsante nel corpo della rappresentazione.

Questo significa che il pubblico può diventare piccola folla o popolo e a un certo punto quest'idea, che in Mejerchol'd è teorica, diventa pratica nel memorabile spettacolo sulla Rivoluzione Francese della regista teatrale francese Ariane Mnouchkine (1939-) 1789. The Revolution Must Stop When Complete Happiness Is Achieved rappresentato per la prima volta nel 1970 al Palazzetto dello Sport di Milano. Qui gli spettatori non sono seduti sulle sedie, ma sono in piedi intorno agli attori che recitano su dei piccoli palcoscenici simili ai palchetti rialzati degli oratori di Hyde Park e si muovono da una parte all'altra secondo le indicazioni degli attori che, sparsi in mezzo a loro, li incitano a seguire ora il gruppo dei citoyenne che si muovono per andare verso la Bastiglia, ora il gruppo degli altri rivoluzionari. Attraverso questa combinazione della concitazione dell'attore e di una situazione spaziale non naturale, eppure naturalissima per percepire ciò che ci viene comunicato, ecco che agli spettatori sembra di essere in mezzo alla presa della Bastiglia. E non sono a Parigi, e non vedono la Bastiglia, e non hanno nessuno elemento concreto, realistico o naturalistico che possa far loro affermare: «Sì, siamo la piccola folla, possiamo essere la piccola folla».

Solo all'interno di una convenzione accettata da chi recita e da chi fruisce – il così detto 'teatro di convenzione' inaugurato da Mejerchol'd, ma anticipato già dal più grande genio della storia del teatro di tutti i tempi, William Shakespeare, con le sue richieste al pubblico di farsi parte attiva dell'azione scenica – , possiamo dunque a mio avviso rappresentare la folla, l'esercito.

Nel mio spettacolo Konarmija. L'Armata a cavallo (2003), i cui racconti nascono dall'esperienza viva dello scrittore russo Isaac Babel sul fronte russo-polacco della guerra civile seguita alla rivoluzione, io non ho messo in scena la piccola folla, bensì per l'appunto le immagini della piccola folla. La rappresentazione dell'Armata Rossa avviene sempre in modo totalmente antinaturalistico su tre livelli di rappresentazione mescolati tra loro: il piccolo drappello dei rivoluzionari della Konarmija, l'Armata a cavallo, vivi, veri, impersonati dai miei musicisti con le divise ghiacciate dalla neve e dei finti cavalli di legno a rappresentare il gioco della guerra; un coro di cecoslovacchi dall'aria truce, vestiti con i costumi dell'armata a cavallo del generale Budènnyj; infine, veri e propri documentari, mescolati tra loro e cromatizzati. Una rappresentazione, dunque, totalmente anti-naturalistica e resa attraverso una convenzione scenica.

Benché possa giungere a mettere in scena fino a un centinaio di comparse e in esso la massa sia spesso realmente protagonista, non c'è del resto nulla di più convenzionale del teatro d'opera, là dove, per l'appunto per convenzione, crediamo per esempio che il Mario Caravadossi della Tosca pucciniana ci metta un'eternità a morire mentre canta tutta la sua morte, là dove invece solitamente si muore di colpo.

Tutte le migliori rappresentazioni di folle grandi o piccole che noi abbiamo visto in scena avvengono dunque attraverso la trasfigurazione del corpo dell'attore che, indipendentemente dal numero di persone realmente presenti sulla scena, diventa collettività, muovendosi in quel modo a metà fra la marionetta, l'attore-motore, l'attore-corpo che attraversa tutto il Novecento.

Questa idea di Mejerchol'd arriverà al Living Theatre, sarà alla base del teatro di Eugenio Barba (1936-) e del suo Odin Teatret, di quello del già citato Tadeusz Kantor, fino a giungere all'apoteosi di questo uso per il corpo di una rappresentazione simultaneamente individuale e collettiva nel Tanztheater di Pina Bausch (1940-2009). In Kontakthof (1983), uno dei capolavori della celebre coreografa, la folla dello 'struscio' borghese di una cittadina tedesca, con la sua camminata convenzionale con sottofondo di amabili musichette, si trasforma in opera d'arte, là dove gruppi di uomini e donne recitano il gioco sadomasochistico della relazione fra il maschile e il femminile inesorabilmente, eternamente equivoca al di là di tutti i saggi di psicologia.

Il prezzo da pagare per avere queste relazioni di folle attraverso l'uso convenzionale e meccanico dei corpi è la totale messa al bando dalla scena di qualunque forma di psicologia e di psicologismo. Come ho già detto, alla scuola di Stanislavskij, che con il suo teatro naturalistico ripreso poi dall'Actors Studio di New York produrrà esiti straordinari sul piano della recitazione, certe pratiche non sono consentite.

Per quanto attiene a me, il teatro è esattamente tutto ciò che permette attraverso la pietas della finzione la rappresentazione degli eventi più grandi, più tragici, più devianti e devastanti, interponendo il filtro dalla finzione come quello specchio che impedisce che la Medusa ti pietrifichi il volto. La condivisione naturalistica o realistica della rappresentazione di una folla tragica in certi casi potrebbe essere pietrificante al punto da indurre al suicidio. Penso che chiunque di noi vedesse davanti a sé il lager di Auschwitz esattamente com'era, non sopravvivrebbe più di una o due settimane prima di togliersi la vita: dinnanzi alla visione di quella folla dolorosa e di quell'orrore, come di qualsiasi orrore - vale per i campi della morte della Cambogia o per gli altri grandi eccidi della storia - non riuscirebbe a resistere.

Influenzato dalla leggendaria Antigone del Living Theater, in cui gli attori-corpo rappresentavano la tragedia sofoclea e al tempo stesso la guerra nel Vietnam, ho tentato quindi di rappresentare la folla dolente attraverso una piccola folla che evoca la grande folla. Ho rappresentato, cioè, la Shoah attraverso il piccolo popolo costituito dall'orchestrina del lager; un piccolo popolo che al tempo stesso interpretava la massa dei sommersi, delle vittime, ma anche quella dei testimoni [a quale opera in particolare si fa riferimento?].

Per concludere, non possiamo passare sotto silenzio il modo eccezionale, inarrivabile, di evocare le folle sulle scena del teatro epico-narrativo cui ho accennato prima. In quest'ambito Dario Fo è stato maestro di tutti noi. Nel suo celeberrimo Mistero buffo (1969), dove la tradizione della commedia dell'arte, dei giullari e dei cantastorie viene filtrata attraverso lezione di Mejerchol'd del corpo che si fa macchina-oggetto, ha evocato col suo corpo folle di umili attraverso la storia, nella loro espressività, nella loro fame, nella loro fede. Lui da solo, attraverso il suo solo corpo.

Abstract: La problematica della messa in scena di masse e folle viene risolta nella drammaturgia novecentesca con il superamento delle istanze naturalistiche della scuola del regista russo Konstantin Sergeevi_ Stanislavskij (1863-1938) attraverso le teorie della biomeccanica e dell'attore-manichino elaborate dal suo attore e collaboratore Vsevolod _mil'evi_ Mejerchol'd (1874-1940). Questo tipo di rappresentazione delle folle in chiave totalmente anti-naturalistica, che nei suoi esiti estremi giunge a identificare la folla con il pubblico stesso, coinvolgendolo nell'azione scenica, sarà praticato, non solo in ambito teatrale stricto sensu ma anche cinematografico, coreografico ed epico-narrativo, dai più grandi registi e protagonisti della scena novecentesca e contemporanea, a partire da Sergej Michajlovi_ _jzen_tejn (1898-1948), Tadeusz Kantor (1915-1990), Ariane Mnouchkine (1939-), fino a giungere a Pina Bausch (1940-2009) e al grande Dario Fo (1926-).

Moni Ovadia

 

 

 

 

   
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