Moni Ovadia: la verità? E’ finzione teatrale
 

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di Antonella Durazzo
daringtodo.com – 19/06/2009

 

Moni Ovadia nasce in Bulgaria nel 1946 da una famiglia ebrea, papà greco-turco, mamma serba, ma è a Milano, dove arriva più o meno a tre anni, che cresce.

E’ nella capitale economica d’Italia, in un momento di profonde trasformazioni economiche e sociali, che ritrova nelle sue radici la volontà di produrre arte. “Vengo da lontano, io – dice spesso - ho seimila anni dentro me e ho le spalle forti di chi nella sua storia le ha viste tutte“. Ed è la sapienza genetica di quei 6mila anni di storia che riemerge ogni volta che sale sul palco e allora le sue parole diventano, indifferentemente, narrazione o canto.

Ha appena smesso i fortunati abiti del Compagno Rabinovich, panni coi quali Moni Ovadia ha portato in tutta Italia la profonda lievità dell’umorismo degli ebrei russi, svelando con un sorriso le nefandezze, le astuzie e i paradossi del sistema sovietico. Adesso si immerge in un classico: il 24 luglio debutterà al Teatro romano di Verona nell’ambito del 61mo Festival Shakespeariano con il suo Mercante di Venezia, portato in scena con la collaborazione, ormai storica, di Roberto Andò.

E’ tempo di prove serrate, questo, ed è tra una prova e l’altra che si sviluppa questa breve conversazione.

 

DT - In questi giorni sta provando il suo nuovo spettacolo; per chi si trova sul palcoscenico la fase delle prove è ancora creativa o è solo stressante?

MO – E’ entrambe le cose, è un alternarsi di depressione e di euforia, con l’aggiunta di un bel po’ di tensione.

 

DT - Poi si va in scena. E sul palcoscenico il pubblico è abituato a trovare il Moni Ovadia attore, autore, musicista. Senza considerare che esiste in parallelo il Moni Ovadia conversatore, il testimone culturale, colui che va a parlare nelle scuole di ebraismo e di ebrei, di incontri con l’altro e di identità. Di pace e anche di umorismo. Si possono ricondurre queste molteplici attività ad un percorso artistico unico?

MO – Il mio processo creativo nasce essenzialmente in due modi, o da un suono, da una suggestione che lentamente va a trasformarsi in una successione sonora, si aggrega in una nebulosa e prende forma. Oppure un altro procedimento, quello dell’idea ossessiva, del pensiero che reitera e che si plasma…

 

DT – C’è un ordine?

MO – Qualsiasi cosa faccia, sia che si tratti del mio teatro musicale – quello nel quale mi riconosco – sia che mi invitino a tenere una conferenza mi sento sempre e comunque un uomo di teatro, un uomo di scena, perchè è quello il luogo nel quale mi sento a mio agio.

 

DT – Anche quando parla di temi serissimi o anche dolorosi

MO – In teatro si costruisce tutto, tutto si fonda sulla finzione e la finzione è l’unico modo che abbiamo per dire la verità. Chi parla credendo di affermare la verità vera non è credibile.

“Credo nella passione”, ci aveva detto Moni Ovadia in un’altra circostanza “senza vivere col cuore non c’è senso. Il potere, il denaro sono una roba triste per vivere.  E invece il senso delle cose lo si ritrova negli sguardi delle persone, nell’andare verso l’altro, verso il fratello, altrimenti tutto è insensato. E sottostare alla legge della violenza è un accidente biologico”.

Ed è forse in queste parole che ritroviamo i seimila anni di storia del popolo ebreo, i seimila anni di memoria dei quali Moni Ovadia è custode e testimone generoso. Ed è forse la parentesi attuale quella nella quale l’autore, l’attore, il musicista non si riconosce, quel generale e generico parlare di ebraismo solo per ricondurre il tutto alle scelte politiche di Israele

 

DT - Perché non è possibile criticare le scelte di Israele senza passare per antisemiti?

MO – Israele è una democrazia e tutte le democrazie possono, anzi devono, essere criticate, ma ci sono ebrei che non lo capiscono

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