Le storie del Signor Keuner - Rassegna stampa

«Le storie del signor Keuner»

Maria Grazia De Gregori

L'Unità - 27 luglio 2006

Emigrazione come ricerca di una vita migliore ma anche come bisogno di quel bene primario che è la libertà. Parte proprio da questa riflessione generale, che sta alla base del geniale spettacolo di Moni Ovadia e Roberto Andò, l’idea di mettere in scena Le storie del signor Keuner di Bertolt Brecht, sorta di epocale riflessione fra parabole e affermazioni inquietanti che, per bocca di un personaggio alter ego dell’autore, si muove fra illusioni e delusioni guidate dall’amaro peso dell’esilio. Costruito fra passato e presente, dove è il gusto della citazione, del frammento che si confonde con il ricordo a fare da traliccio, Le storie del signor Keuner secondo Andò e Ovadia (che, vestito di scuro, ne è il protagonista nel ruolo del curatore di una mostra del tutto speciale che mescola reperti perduti del Novecento, pronto a prendere la parola ma anche ad osservare), sono un vero e proprio viaggio fra immagini e voci, improvvise e inaspettate analogie, lacerti di un sogno che se mai c’è stato non c’è più, delitti impuniti, fotogrammi di film muti e parole fra personaggi che vanno e che vengono ognuno con la sua storia, ognuno con il suo ricordo e un esilio da raccontare: dalla vita, dalla libertà, dalla patria.
Lo spettacolo, che nella prossima stagione sarà presentato in tutti i maggiori teatri d’Italia, costruito come un kabaret espressionista, esaltato dalle luci di Gigi Saccomandi, sia concettualmente che scenicamente su piani diversi che ricostruiscono la storia, la fragilità di Brecht e dei molti come lui abituati a camminare tenendosi sempre accanto la superiore dimensione del dubbio, l’unica a tenerci vivi davvero anche quando la delusione è più cocente e a ricordarci che, sempre, un uomo è un uomo con le sue vigliaccherie e i suoi eroismi spesso involontari. C’è come una linea ideale, una moralità segreta dentro questo spettacolo che contrappone il nazismo e Totò Reina, Oriana Fallaci e Peter Handke, Cristo e Che Guevara, Andreotti, Moro, Falcone, Borsellino. E ci sono tanti Keuner che dicono le loro opinioni sul mondo ripresi dai video curati da Elisa Savi (suoi anche gli inventivi costumi): da Claudio Magris a Oliviero Diliberto, da Alessandro Bergonzoni a Dario Fo, da Arnoldo Foà a Milva, da Gino Strada a Don Gallo e Gherardo Colombo, a Sergio Romano mentre su uno dei due schermi che chiudono verso la parete di fondo la scena, passano le struggenti immagini di una lontana Opera da tre soldi provata da Strehler e la voce gracchiante di Brecht risponde alle imbarazzanti domande del generale McCarthy (che scatenò uno terribile caccia alle streghe contro chiunque fosse sospettato di comunismo) oppure canta Per gli umani sforzi ...Voci, riflessioni amare e ironiche che si confrontano con il fantasma di Kafka, con atti di coraggio spesso estremi. E ricordi, ovunque: i banchi indimenticabili della Classe morta kantoriana con manichino incorporato che rivivono per noi grazie a Roman Siwulak, la presenza inquietante di Maxim Shamkov nel ruolo di un mafioso russo, mentre il disincantato custode di un ipotetico museo che mescola passato e presente, interpretato da un commovente Ivo Bucciarelli, ci ricorda che la memoria è un deterrente formidabile all’errore.
Lo sguardo che Andò e Ovadia gettano a quel mondo è personale e complesso ma carico di suggestioni e di poesia, di una certa leggerezza malgrado la profondità del tema, garantita dai formidabili musicisti della Moni Ovadia Stage Orchestra, travestiti da donna, magari per sfuggire a qualche pericolo come in A qualcuno piace caldo di William Wyler, dalla voce ricca di sfumature della bravissima Lee Colbert che cita Marlene nell’ Angelo Azzurro o che canta i song di Jenny dei Pirati. E la parola di Brecht ovviamente: lucida, impietosa anche con se stesso nel senso profondo di un’etica e di un’estetica del teatro che Ovadia e Andò fanno proprie ma non per finta nella scelta di un’amara resistenza sottolineata dalla risata grottesca di Fo. Uno spettacolo in bilico sul baratro, che pone domande e non aspetta risposte con tutta la sua etica flessibile e contraddittoria, da manuale di sopravvivenza per un’amara resistenza. Il teatro, dunque, come luogo di un pensiero e di un atto politico che ci riguarda.