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Il caso Kafka - Rassegna stampa

 

Il caso Kafka

di Oliviero Ponte di Pino

Il Manifesto - 23 gennaio 1997

 

È difficile sottovalutare l’importanza dell’incontro e dell’amicizia tra Franz Kafka e Jizchak Löwy, al Caffè Savoy, nella Praga del 1911. In più di un senso, l’attore polacco rivelò Kafka a se stesso. Al giovane ebreo assimilato fece scoprire la tradizione, l’ebraismo dell’Europa dell’Est, le sue radici profonde. Figlio ribelle, deciso a tutti i costi a soddisfare la propria vocazione d’artistra, mise a nudo il rapporto di Kafka con il padre - e infatti Löwy è una presenza fondamentale nella celeberrima (e mai spedida) Lettera di Franz al genitore.
Il nuovo spettacolo di Roberto Andò (regista) e Moni Ovadia - che nel titolo riprende un’espressione “clinica” di Walter Benjamin, Il caso Kafka, ruota intorno a questo incontro, e lo sceglie come chiave per cercare di cogliere ed esplorare l’identità ebraica. Più che attraverso un confronto tra i due personaggi e la loro concezione del mondo (e dell’ebraismo), quello del Caso Kafka è un percorso che procede accumulando segni e suggestioni (a cominciare naturalmente dalle citazioni kafkiane).
Il Caffè Savoy è abitato da un vecchissimo e silenzioso cameriere. È disseminato di bicchieri sporchi e vecchie scarpe (quelle che gli ebrei abbandoneranno prima di entrare nelle camere a gas). Il locale si anima di una scenetta rubata alla Bibbia e recitata con ridicola ed eroica inadeguatezza: ma Kafka s’era subito accorto che l’inadeguatezza del teatro, il suo essere insieme comico e tragico, è la sua verità, e anch’egli si sentiva “inadeguato” quant’altri mai.
Irrompe una travolgente orchestrina di ebrei con pastrani sdruciti e barbe lunghissime (l’ormai mitica Theater Orchestra). Si materializza per un istante la presenza di Nathan il saggio. Esplodono le risate silenziose, mute,
che tanto colpivano gli amici di Kafka. Echeggiano rari frammenti del Diario, con la voce di Bruno Ganz...
Moni Ovadia è Jichzak Löwy. Ha la forza della lingua yiddish: la sua potenza poetica ed espressiva, ma anche l’impatto di verità che può avere solo la voce dei sei milioni di ebrei sterminati. Ha in sé la forza della tradizione, quella della retorica e del pathos, e una comunicativa trascinante. Tra le sue armi ci sono anche il canto e la musica, e la crudeltà dell’umorismo ebraico e della sua “contro-teologia”. Dalla sua, ha anche il fascino della sua primattrice e cantante, la signora Tschissik (Lee Colbert, che regala alcuni splendidi song), di cui
Kafka naturalmente s’invaghirà, lasciando più d’una traccia nel Diario.
Al contrario Kafka (il giovanissimo e bravissimo Alexandre Vella) è solo. E’ un bambino timido e silenzioso, che indossa come un guscio gli abiti che riconosciamo nelle fotografie dello scrittore: la bombetta, e a stringere quel corpo magro il cappotto nero con il collo di velluto. E’ timido e silenzioso, fragile e perfetto, innocente ma irraggiungibile. Lontano. Già tutto chiuso, forse, nella scrittura.
Difficile capire appieno, da questo Caso Kafka, quali tracce abbia effettivamente lasciato la “tentazione Löwy” nella vita e nell’opera di Kafka. Ma non è forse un caso che questa rivelazione della propria identità sia avvenuta in un teatro. (Tanto è vero che il teatro tornerà due volte - come una chiusa sospesa, con straordinaria forza profetica - in altrettanti momenti chiave dell’opera di Kafka: in America, con l’utopia del Teatro Viaggiante di Oklahoma; e nell’ultimo dei racconti, nel ritratto autobiografico e struggente di Giuseppina la cantante, che non ha caso ha i gesti diagnosticati da Kafka molti anni prima nella recitazione della signora Tschissick, e la voce di Kafka.)
Difficile capirlo, anche perché Moni Ovadia, con pudore, preferisce non affrontare i nodi più vertiginosi della “ebraitudine” di Kafka e della sua abissale meditazione teologica, e si proietta interamente nel vero protagonista del Caso Kafka, l’attore Löwy. Oltretutto quello di Ovadia non è il Löwy che ha conosciuto Kafka: viene reinventato oggi, dopo che i massacri della storia hanno reso ancora più necessario salire sulle tavole di un palcoscenico - e fingersi - per ritrovare quell’identità ebraica, per salvarne un frammento, per farne vivere un
respiro. È solo così, dopo che il “piccolo Kafka” ha abbandonato la scena, dopo aver scandito a due voci la Lettera al padre, che Ovadia nel finale potrà ritrovare l’aura di quel mondo, per quel poco che è possibile: in un ondeggiare del capo, in una danza incerta ed estatica, in una battuta tanto feroce quanto autodistruttiva, in una voce stanca, ormai logora, ma dispiegata in un canto che ancora vibra.

   

 
Kafka-rassegna © Photo: Maurizio Buscarino
 

Il caso Kafka - Press

Il caso Kafka
by Oliviero Ponte di Pino

il manifesto - 23 January, 1997

The importance of the meeting between Franz Kafka and Yiztchak Löwy at the Café Savoy in Prague during the year 1911, and the friendship which ensued between them, is not to be underestimated. In more ways than one, the Polish actor revealed Kafka to himself. Through him, the young assimilated Jew Kafka discovered tradition, the Judaism of eastern Europe and its deep roots. A rebellious son, determined to satisfy his own artistic vocation at all costs, he uncovered the nature of Kafka's relationship with his father – in fact, Löwy is a fundamental presence in the famous (and never sent) Letter to my Father by Franz Kafka. (...)

 

Kafka in palcoscenico leggendo nella memoria

by Maria Grazia Gregori

L’Unità - 27 January, 1997

Between memory, sense, or rather from a "vice of roots", one of the most moving shows seen in the past few months is born...

 

 Così Kafka incontrò l’uomo che lo spinse alla rivolta

by Giovanni Raboni

Corriere della Sera - 23 January, 1997

If I remember correctly, Kafka's words entered the expressive world of Moni Ovadia for the first time with Oylem Goylem, his "Yiddish Cabaret" from a few years ago, which introduced to the Italian public, and not only Italian, this extraordinary actor-singer-author and which brought him recognition as one of the great, original and, I dare say, indispensable artists of our time...

   

 
 
 

Il caso Kafka - Rassegna stampa

 

Così Kafka incontrò l’uomo che lo spinse alla rivolta

di Giovanni Raboni

Corriere della Sera - 23 gennaio 1997

 

Nel mondo espressivo di Moni Ovadia le parole di Kafka entrarono per la prima volta, se non ricordo male, con Oylem Goylem il «Cabaret yiddish» di alcuni anni fa grazie al quale il pubblico italiano, e non soltanto italiano, cominciò a riconoscere in questo straordinario cantante-attore-autore uno dei più grandi, originali e, oserei dire, indispensabili artisti del nostro tempo. Può un critico cedere alla tentazione di rivendicare per sé il merito, o forse soltanto la fortuna, d’averlo intuito con qualche anticipo? No, meglio di no e chiedo scusa di averlo comunque fatto. Ma torniamo alla prima comparsa esplicita di Kafka nel teatro di Ovadia, che fin dall’inizio, come è noto, ha preso su di se il compito dolcissimo e in qualche modo terribile di far rivivere per noi una realtà praticamente cancel-
lata dalla follia criminale nazista: quella, appunto, della cultura yiddish, la cultura popolare ebraica dell’Europa centrale. In Oylem Goylem, a un certo punto Moni leggeva l’elogio della lingua yiddish, scritto da Kafka dopo il suo incontro con un attore di origine polacca, Jizchak Löwy, capocomico di una compagnia ebraica. Questo incontro, che avvenne nel 1911, segnò una svolta nella vita di Kafka.
Secondo uno dei suoi maggior studiosi, Giuliano Baioni, esso rappresentò per l’autore deI Processo «l’unica forma di bohème di un uomo altrimenti schivo e assolutamente incapace di atteggiamento di provocazione» e, in termini più profondi, “una vera e propria sfida all’ebraismo del padre e alle sue
ambizioni borghesi”.
Poteva Moni Ovadia non tornare su questo tema affascinante e cruciale? E’ evidente che non poteva; ed, ecco infatti, Il caso Kafka, lo spettacolo da lui ideato e scritto assieme a Roberto Andò, e coprodotto da Crt Artificio e dallo Stabile di Palermo, che è andato trionfalmente in scena l’altra sera al
Teatro Studio. 
Non si pensi a un «resoconto» dei rapporti tra i due personaggi: lo spettacolo è innanzittutto un’altra tappa dell’esplorazione musicale e affabulatoria del mondo yiddish condotta, come di consueto, con l’aiuto dei sette componenti (in buona parte rinnovati rispetto alle ultime comparse, ma sempre bravissimi e affiatati) della sua TheatorOrchestra. Ma oltre ad essere se stesso Ovadia è anche e so-
prattutto stavolta, Löwy; e nello spazio davvero magico creato, con un’implicita dedica al magistero di Tadeusz Kantor, dalle, scene di Gianni Carluccio e alle luci di A. J. Waissbard, il confluire, a volta a volta pacato e frenetico, di presenze umane, di oggetti affettuosamente spettrali e di ombre paradossalmente rassicuramenti dà vita a un racconto non di fatti ma di immagini, di figure di simboli. Con Kafka bambino (invenzione semplicissimo e toccante) al quale Ovadia-Löwy insegna la lingua della comicità e del corpo; con due splendidi artisti «d’arte varia», la cantante Lee Colbert e l’attore-mimo-acrobata Olek Mincer, che si alternano a Moni nei «numeri» del teatrino dentro il teatro su cui la rappresentazione si impernia; con un vecchio, lentissimo cameriere (Ivo Buciarelli) che fa continuamente il giro del suo dominio gremito, in una prospettiva atrocemente profetica, di scarpe senza proprietari:
le scarpe delle future vittime dell’olocausto...
Lo spettacolo ha il suo momento di «letterarità» nella citázione - in cui si alternano con esemplare ritegno Ovadia e il piccolo (emozionatissimo, ma proprio per questo efficacissimo) Alexandre Vella - di alcuni passi della «Lettera al padre» di Kafka; ma già prima si era sentita la voce registrata di Bruno Ganz recitare brani dai «Diari» e dai «Quaderni in ottavo». Alla fine,. come in un lungo bis incorporato Ovadia, senza cessare di essere Löwy e, per delega Löwy, Kafka ridiventa “anche” Ovadia; e una volta di più ci rendiamo conto che ci è davvero impossibile, ormai, fare a meno di lui.

   

 
 
 

Il caso Kafka - Rassegna stampa

 

KAFKA IN PALCOSCENICO LEGGENDO NELLA MEMORIA

di Maria Grazia Gregori

L'Unità - 27 gennaio 1997

 

Fra memoria, senso o, piuttosto, come “vizio delle radici”, prende vita uno degli spettacoli più emozionanti di questi ultimi mesi. È Il caso Kafka, in scena con grande successo al Teatro Studio (fino al 9 febbraio). Responsabili dell’operazione, che prende il titolo da una definizione di Walter Benjamin, sono Moni Ovadia e Roberto Andò che firma una regia di forte impatto evocativo. Che cosa inchioda e affascina, per due ore filate, il pubblico? Innanzi tutto la capacità di questo spettacolo di muoversi su due piani, quello dell’evocazione e quello
dell’identificazione, parlando, dunque, allo stesso tempo, alla mente e al cuore. Un’alchimia formidabile che ci lascia coinvolti e commossi.
Forse, però, la forza maggiore di Il caso Kafka sta nella sua teatralità che si nutre di alcune idee destinate a lasciare un segno. Prima fra tutte quella di avere “inventato” una figura che è testimone silenzioso e affascinato: un Kafka ragazzino interpretato dal giovanissimo e bravissimo Alexandre Vella.
Un Kafka vestito “da grande”, in nero, bombetta in testa e severa redingote, che sembra avere ormai perduto il tempo dei giochi eppure pronto a stupirsi, a riempirsi gli occhi di cielo e di sogni. Ma anche il Kafka della terribile e mai spedita Lettera al padre (qui detta a due voci dal Kafka “grande”, Ovadia e dal Kafka “piccolo”, Vella), segnato dalla paura, dalla fragilità che poi si trasformerà in malattia mortale, perseguitato dai suoi fantasmi e affascinato dal teatro. Del resto è proprio in un luogo dedicato al teatro, il cabaret yiddish del Caffè Savoy di Praga, che ci troviamo. Qui fra tavolini, porte aperte e chiuse (ossessione kafkiana, a partire dalla prima porta chiusa dal padre e lui bambino, fuori, nel buio della notte), fra manichini, bicchieri, scarpe abbandonate per terra a citare le montagne di scarpe lasciate dagli ebrei prima di entrare nelle camere a gas,
si “gioca”, il grande tema della ricerca delle radici. Tutto avviene sotto gli occhi di un vecchio cameriere (Ivo Bucciarelli) che, simbolicamente, fa da buttafuori e da spettatore, insieme al giovane Kafka, di quanto si rappresenta su di un palcoscenico povero, dal sipario rosso fuoco da cui escono i personaggi (fra di essi il bravo Olek Mincer), di un improbabile e un po’guitto teatro yiddish e sul quale si manifesta il talento naturale di Jizchack Löwy, conosciuto dallo scrittore nel 1911 e diventato suo amico: un simbolo di libertà, che nel teatro sembra trovare la sua possibilità di sopravvivenza.
Da questo sipario dei sogni e delle meraviglie escono i personaggi che ritroveremo anni dopo nell’invenzione del Gran Teatro di Oklahoma in America: saltimbanchi, mimi fantastici, orchestrine clownesche e trascinanti, raccolti in un metaforico circo. Da qui, insomma, nasce la folgorazione di un teatro necessario, semplice e vitale, connaturato alla bellezza della lingua yiddish in onore della quale Kafka farà al Savoy, dedicandola a Löwy, la sua unica esibizione pubblica.
Fra citazioni di giochi infantili, guidati da una colonna sonora che ripropone ossessivamente porte che sbattono, la caduta di biglie su di un pavimento e la voce sublime di Bruno Ganz che dice brani dei Diari e dei Quaderni in ottavo in tedesco, mentre delle diapositive, in sovrimpressione, ce ne danno la traduzione, si snoda un rito teatrale che sta tutto nel senso dell’appartenenza anche attraverso l’apprendimento di una lingua (magnifica la scena in cui Ovadia- Löwy la insegna a Kafka che trova le corrispondenze tedesche).
Fra i canti suonati dalla strepitosa Theaterorchestra ai quali dà voce la bravissima Lee Colber, le battute fulminanti da cabaret, che hanno reso famoso Ovadia, si fanno strada le due anime dell’ebraismo: il ricordo-lamento anche ossessivo di ciò che è stato e la ricerca di ciò che potrebbe essere.
Perchè in quel circo magnifico e inquietante che ci dice addio sotto la luce trepida dei riflettori, il magnifico Moni Ovadia, parlandoci delle memoria, creandosi una genealogia fantastica, che lo vede discendente di Löwy
ma anche di Kafka, guarda al futuro.

   

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