Una mano tesa alla Palestina
 

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di Silvana Zanovello
IL SECOLO XIX – 19/12/2001

 

“Le madri e i padri piangono con le stesse lacrime in tutto il mondo” dice Moni Ovadia che a La Spezia il 20 dicembre, nel corso del festival R-Umori mediterranei riceverà il Primo Premio Exodus.

Dopo la cerimonia, che si svolgerà alle 17 nel Centro Allende, il teatrante ebreo salirà sul palcoscenico dei Civico, sempre fedele all’idea che i sentimenti non hanno confini, sarà accanto al cantante e fisarmonicista palestinese Albert Mihai. Con lui intonerà “La bottiglia vuota”, un monologo che racconta lo spirito e i pensieri del mondo Khassidico, una corrente ortodossa dell’ebraismo.

Una provocazione politica? Ma questo “duo”, nato come invito alla pace non rischia di atttirarvi anatemi da una parte e dall’altra?

Sia chiaro, non faremo prediche. In questo spettacolo, così come in “Finanzieri e mendicanti” che porterò alla Corte di Genova con a Theater Orchestra il 14 gennaio (e che ha come tema centrale il denaro), io lavoro su livelli straniati. Non riesco mai ad esprimermi come se dovessi redigere dei volantini, così come non ce la faccio a creare spettacoli “ a comando”, spinto dall’incalzare della cronaca. In quanto alle critiche, certo, non ci sono mancate. Ma noi siamo sempre stati e restiamo amici.

Vi date la mano, da fronti opposti, come artisti e come intellettuali. Sarebbe altrettanto facile se foste studenti, casalinghe, impiegati, operai o contadini, su strade e campi macchiati di sangue?

C’è chi lo fa, c’è chi riesce ancora a parlare, nei dintorni di Gerusalemme. A una trentina di chilometri dal cuore della città è stato fondato un villaggio con due nomi: Neve’ Shalom e Wahat-el-Salam. Lo ha fondato un prete cattolico, nato ebreo e cittadino egiziano. Ebrei palestinesi ci vivono in pace. C’è anche un’associazione che raggruppa genitori di ragazzi morti in guerra, ebrei e palestinesi . C’è un milione di palestinesi con passaporto israeliano. E con i “nemici” hanno i rapporti più normali del mondo.

Nega dunque che per gli artisti sia più facile, meno rischioso, qualche volta addirittura appagante e gratificante?

Per gli artisti è più facile uscire da certe logiche e convenienze della politica, illuminare i sogni anche attraverso i paradossi, cercare quello che accomuna gli uomini.

Lei, tre anni fa, intervistando ebrei e palestinesi in Israele, ha cominciato a scrivere un libro che poi non è più uscito. Perché?

Perché la situazione è cambiata: nel frattempo sono successe cose, cose che non conosco bene: oggi sembrerebbe ingenuo.

Ha deciso di chiudere i suoi appunti in un cassetto dopo il cambio di guardia ai vertici del governo israeliano e dopo i brindisi di certi palestinesi per l’attentato di Bin Laden a New York?

Io sono sempre contro l’occupazione dei Territori, l’ho sempre detto. Ma non ho smesso di scrivere per opportunismo, per aspettare un clima politico più vicino alla mie idee. A un certo punto mi sono detto: fai il teatrante non il politologo; devi parlare di quello che conosci meglio: dell’uomo. Ma, anche per decifrare l’animo dell’uomo della strada, in certi momenti è necessario fermarsi, e riflettere. In quanto ai festeggiamenti dopo il crollo delle Twin Towers lo ho trovati aberranti, disgustosi. Credo, mi auguro, che quella gente non abbia mai letto il Corano. Da nessuna parte, in nessun libro, Dio può consentire che si gioisca per la morte di persone innocenti.

Cercare l’uomo dietro le ideologie non è utopia, in un mondo così inasprito?

E’ un dovere. E non possiamo certo dimenticarlo noi ebrei, che durante l’Olocausto eravamo guardati come topi di fogna.

Anni fa lei ha detto che, se un suo amico attore fondasse un Teatro Nazionale Palestinese, lei ci andrebbe come ospite. Lo pensa ancora?

Certo, per dialogare. E con la speranza di smascherare, magari con l’ironia, quei furbastri che tengono vivo l’odio sfruttando l’ingenuità dei giovani.

   
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