L'Armata a cavallo - Rassegna stampa

 

La vita è lamadre di tutti i massacri

Moni Ovadia mette in scena e recita “Konarmija” di Isaac Babel’, una prima assoluta a Bologna

di C. Bernd Sucher

Süddeutsche Zeitung - 5 novembre 2003

 

Isaac Babel’, 30 racconti dal titolo “L’Armata a Cavallo”, che furono magistralmente tradotti in tedesco da Peter Urban nel 1994, costituiscono un’opera brutale e spettacolare.
L’io-narrante, un intellettuale ebreo che vive tra i cosacchi e che nel 1920 partecipa con l’Armata Rossa alla campagna militare contro i polacchi, racconta di assassini, di carneficine senza senso, insiste su un mondo privo di salvezza ma allo stesso tempo celebra la vita che solo nel bel mezzo del terrore scopre essere un enorme dono. La trasposizione filmica di “Konarmija” divenne in Germania un mezzo mediatico di grande successo. Fino ad oggi tuttavia le novelle non furono mai rappresentate in teatro.
Moni Ovadia, nato in Bulgaria nel 1946, vissuto in Italia a partire dalla fine degli anni quaranta, ora osa creare un lavoro teatrale ricavato dalla trama della prosa. Adatta il testo alle sue interpretazioni, inventa dialoghi e ruoli, cita versi di Majakowski, inserisce canti ebraici e russi. Nasce dunque un nuovo testo, con la ferocia espressionistica di Babel’, serbandone allo stesso tempo la sua malinconia. Il racconto di Babel’, che già conteneva un dissidio interiore doloroso con la patria, diventa ora con Ovadia un lamento per il declino della patria. E lo fa con la stessa ingenuità, bellezza e aggressività di Babel’. Sicuramente questa sera al teatro bolognese Arena del Sole non verranno soddisfatti gli appassionati di nostalgia esteuropea, pur non mancando il folklore yiddish, la musica, le immagini fantastiche riprese dai quadri di Chagall. Invece del violinista sul tetto c’è il pianista là in alto sulle teste dei combattenti, dei sognatori, dei corpi morti giacenti a terra. Se il teatro postdrammatico si distingue per l’uso dei testi come semplice materiale e trae vantaggio da qualsiasi forma artistica, allora il teatro di Moni Ovadia diventa una forma esagerata portata all’estremo di questo tipo di teatro.
Ovadia fa costruire dallo scenografo Leonardo Scarpa uno spazio in cui vengono progettati tronchi di alberi scuri privi di foglie, dietro a questi si scorgono su uno schermo altri fusti di alberi dai rami nodosi, attraverso i quali in seguito si possono vedere enormi scene di guerre e di armate a cavallo. Si tratta di scene di film sovietici e di sequenze, girate apposta per questo dispendioso allestimento. A volte vengono proiettate sullo schermo anche le traduzioni dei dialoghi in italiano. Poiché tutti gli attori parlano e cantano per la maggior parte del tempo in russo e in yiddish.
A questi soldati nelle loro uniformi dell’Armata Rossa, a queste donne spaventate che temono per la vita dei loro figli, il narratore ora presta la sua voce. E il narratore è Ovadia che con un mantello scuro si aggira sul palcoscenico, si accosta agli attori e traduce a voce alta quello che loro dicono. Si forma un brusio di voci e suoni che allo stesso tempo angoscia e mette in risalto il fatto che questi uomini continuamente si urtano l’uno con l’altro perché tra di loro non si stanno ad ascoltare. Per di più, e questo è il grande vantaggio che se ne trae da questo sdoppiamento linguistico, il narratore diventa una sorta di ebreo errante che vaga per il mondo in preda al delirio della sua fantasia e dei suoi ricordi. Ovadia, autore, regista e protagonista, è alla ricerca di un tempo perduto e di una cultura perduta. La sua messa in scena, che può essere accostata alle rappresentazioni di Tadeusz Kantor, con il quale Ovadia iniziò la sua carriera teatrale, si affida ai mezzi più semplici.
Come accessori di scena si serve di piccoli calessi in legno. Gli attori non si sforzano affatto di muoversi in modo naturale, ma galoppano come se fossero animali. Il loro ruolo è stilizzato. Solo i costumi e le calzature possono essere ricondotti agli anni venti. La pluridimensionalità linguistica, l’accostamento e la sovrapposizione di voci trova un suo parallelismo nell’azione, nella simultaneità della recitazione. Ci sono tre piani di rappresentazione: lo spazio del narratore, che si aggira per la maggior parte sulla ribalta e come un suggeritore di pensieri grida ad alta voce dietro agli attori, che alla maniera kantoriana spesso si muovono come se fossero immagini viventi e sembrano non accorgersi degli estranei accanto a loro; infine proiettata sul muro vediamo un’oscura foresta, oltre la quale il mondo è rappresentato come un film, in cui si scorgono carneficine e carnefici, e anche Lenin, spettrale ed enorme, e una fossa comune.
Si tratta di una rappresentazione sconvolgente, del tutto “demodé”, talvolta sentimentale e talvolta del tutto moderna – nel rifiuto del realismo e di una logica argomentazione, e nell’uso di molteplici mezzi mediatici. Inoltre, sulla scena c’è un richiamo ben riuscito al bizzarro paesaggio babeliano e una buona resa della contorta lingua allegorica del poeta qui tradotta in gesti teatrali. Un’impresa audace, in quanto nel testo di Babel’ ci sono ganci da muro che scavano la terra come fossero le dita convulse delle vecchie, gigli che profumano, fiumi di latte azzurrognolo che scorrono sul pavimento, e “la trama gialla della pace” copre il volto di un ferito come un sudario di morte.
L’esperimento riesce. Non ultimo perché Ovadia si avvale di attori e di musicisti straordinari, tra questi Roman Siwulak, principale protagonista in tutte le più importanti produzioni di Kantor. Perché Gigi Saccomandi, il miglior autore di luci in Italia, illumina la scena come fosse uscita da un incubo e perché Ovadia, sempre presente sul palcoscenico, non si infila dentro agli avvenimenti ma diventa una sorta di accompagnatore che commenta e si aggira sulla scena come uno spettro. In questa rappresentazione, Ovadia, che dopo aver studiato scienze politiche, iniziò la sua carriera teatrale come musicista, canta anche e qualsiasi comunità ebraica lo vorrebbe come cantore.
“Konarmija” di Ovadia sarà in tournée per alcuni mesi in Italia, poi lo si potrà vedere all’estero. Il poliglotta Ovadia non cambierà il suo concetto intrinseco: in Germania reciterà in tedesco, in Francia in francese e in Spagna in spagnolo. E anche laggiù tutti capiranno che a Ovadia non interessa in fin dei conti mostrare ciò che accadde, ma a lui interessa il presente. A tal proposito c’è una frase che domina tutta questa travagliata rappresentazione e crea un inquietante silenzio: “Morire è facile in questi tempi, difficile è vivere”. L’ebreo Ovadia concepisce il suo lavoro teatrale in modo assoluto anche come impegno politico e pacifista.

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