L'Armata a cavallo - Rassegna stampa

 

La storia siamo noi. Ovadia centra il bersaglio

Bologna, lo spettacolo sulle armate cosacche nella Rivoluzione russa affascina e fa riflettere sulla guerra e sugli ideali per un mondo più giusto

di Maria Grazia Gregori

L'Unità - 27 ottobre 2003

 

Pugno chiuso, bandiere rosse al vento, stella rossa sui copricapi d’ordinanza: eccoli i cosacchi della famosa Armata, costruita da Trotskij praticamente dal nulla, che si battono sul fronte russo-polacco. Eccoli i feroci, orgogliosi soldati abituati a essere tutt’uno con il proprio cavallo, battersi con l’esercito dei controrivoluzionari bianchi, contro i polacchi, avanzare come una macchina da guerra simile a un’orda barbarica nelle loro uniformi quasi gessose inventate da Elisa Savi, così cariche di passato e di memoria. Fra di loro, accanto a loro, un uomo in pastrano chiaro e maglione rosso affianca questo fluire di piccole storie nate dalla penna di Isaac Babel’, grandissimo scrittore ebreo russo cui non bastò essere sodale di Gorkij, stare dalla parte della rivoluzione, averla fatta in prima persona, per sopravvivere alle purghe staliniane, scomparendo nel nulla nel 1941. Fra i tronchi quasi calcificati delle betulle che invadono il palcoscenico dell’Arena del Sole di Bologna (scenografia di Leonardo Scarpa), va in scena Konarmija, l’armata a cavallo, capolavoro di Babel’, riletto da Moni Ovadia: un viaggio dentro la miseria, la violenza, la ferocia, l’utopia, la grandezza di una pagina di storia che le straordinarie immagini d’epoca mischiate alle nuove dei filmati di Mauro Contini, a lungo collaboratore di Carmelo Bene, fanno detonare con tutta la forza della loro immediatezza. Così i fotogrammi che hanno per protagonista Lenin possono stemperarsi nella danza disperata di una rivoluzione vestita di rosso (l’ucraina Olena Sakun) destinata a misurarsi con una guerra civile e a soccombere, di lì a poco, dentro le secche della normalizzazione perché, come scriveva Majakovskij con tutto il suo disperato disincanto, «morire è facile, vivere è di gran lunga più difficile». Ovadia opera con il bisturi e un grandissimo amore dentro il corpo del capolavoro di Babel’, dal quale nel 1967 Miklós Jancsó trasse un epico film, privilegiando le piccole quando non addirittura le piccolissime storie di semplici soldati, di ebrei russi, avanguardia o retroguardia dei grandi rivoluzionari ebrei anch’essi: oltre a Trotskij (al secolo Lev Davidovic Bronstein), Kamenev, Zinoviev e perfino, per parte di madre, lo stesso Lenin. Perché le storie piccole contengono i germi della grande Storia, costata montagne di vittime e un bagno di sangue, da scandire sulle note dell’Internazionale alla ricerca di un futuro migliore. La tesi di Ovadia, pur nell’ovvia riduzione dell’epopea babeliana, sembra proprio questa: senza il sacrificio, l’eroismo senza nome degli ultimi della terra non è possibile nessun riscatto, nessuna utopia. Ed è questo, sostanzialmente, che accomuna la visionaria cecità di Ghedali (Vincenzo Pasquariello), robivecchi ebreo cieco che sogna una «rivoluzione di brave persone», agli infiammati discorsi di Lenin, il sacrificio di un’oca per dare da mangiare ai soldati a quello dei tanti colpiti a morte per dare forza alla Rivoluzione. All’interno di un fluire continuo, punteggiato da antiche canzoni (affiancano il regista-attore gli attori-musicisti con lui da molti anni), da inni alla nuova arma, la «tachanka», mitragliatrice messa su di un calesse in grado di spostarsi velocemente da un punto all’altro, che sarà così importante nel corso della guerra civile seguita alla rivoluzione bolscevica, Ovadia costruisce uno spettacolo che rimanda alla visionarietà del grande maestro polacco Tadeusz Kantor, citato in più di una situazione e di un’immagine, riservando per sé la parte del narratore. Non il protagonista, che è Ljutov nel quale Babel’ ritrasse se stesso con tutta la sua impotenza di uomo diviso fra la spinta rivoluzionaria e l’orrore della guerra e che è interpretato dall’attore kantoriano Roman Siwulak (le lingue dello spettacolo sono il russo, l’yiddish e l’italiano), ma il «doppio» di tutti i personaggi in scena, la loro voce, l’affabulatore brechtiano che ci guida tenendoci per mano, riflettendo, provocando, cantando, addirittura traducendo parola per parola dentro questa pagina di storia. Uno spettacolo che fa riflettere sull’orrore della guerra ma anche sugli ideali di libertà, giustizia, uguaglianza.

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