Mame, Mamele, Mama - Rassegna stampa

 

« Mame mamele mama mame mamma mamà »

Oliviero Ponte di Pino

Il Manifesto - 16 novembre 1998

 

Moni Ovadia ha iniziato a far conoscere in Italia la cultura degli ebrei dell’Europa dell’Est con il suo cabaret yiddish Oylem Goylem (visto anche in tv). Poi ha iniziato un’esplorazione tematica: un capitolo dedicato all’Olocausto (Dybbuk), un altro agli slanci rivoluzionari del giudaismo secolarizzato (Ballata di fine millennio), un altro a Kafka e al suo amico attore Löwy (Il caso Kafka).

Ora tocca alla figura della leggendaria “yiddishe mame”, la mamma ebrea (per chi volesse saperne di più, è disponibile la monografia di Rachel Monika Her-
weg, che ripercorre l’intera storia di questo “matriarcato occulto ma non troppo da Isacco a Philip Roth”).
Il nuovo spettacolo è però anche qualcosa di diverso - di più personale e autobiografico, parrebbe. Mame mamele mama mame mamma mamà. Il crepuscolo delle madri (così suona il titolo completo) è un kaddish, cioè una orazione funebre, in onore della madre scomparsa. L’associazione più immediata è all’omonima struggente lirica di Allen Ginsberg (debitamente citata), ma in questo collage s’incontrano anche - tra gli altri - Laing e Brecht, Ritsos e Rózewicz, Esenin e Proust (il celeberrimo incipit della Recherche, quello del bacio della buona notte), una sfilza di canzoni ora beffarde ora struggenti, comprese sconclusionate rivisitazioni yiddish di melodie celeberrime come “La Cucaracha” o “Ciribin”, e naturalmente una manciata di irresistibili storielle ebraiche che hanno per protagonista una o più mamme ebree, personificazione di un affetto che può diventare devastante, implacabile, terroristico.
Nel cantare la madre - sua madre - Moni Ovadia attraversa un’autentica babele di lingue, con sottotitoli casalinghi per la traduzione, che scorrono come papiri su due rotoli di stoffa ai lati della scena: l’italiano e lo yiddish, naturalmente, ma anche russo e inglese, francese e bulgaro, tedesco, polacco e spagnolo… Un po’, banalmente, perché le mamme del mondo sono tutte belle, e tutte temibili. Ma anche perché si intuisce, forse, che il “crepuscolo delle madri” (cui lo stesso Ovadia dedica, in questa alba dell’era genetica, un’angosciata profezia) sta cancellando la madrelingua. Resta spazio solo per quella lingua primordiale che è il canto, forse il pianto.
Quella di Moni Ovadia resta una drammaturgia embrionale, ancora vicina alla liturgia, un concerto teatralizzato popolato più da figure che da personaggi, con uno sviluppo che è musicale ancor prima che narrativo, sospinto dalla tensione che anima tutti i suoi lavori: la sovrapposizione di lutto e riso, lo scontro tra un cordoglio inaccettabile e una comicità che libera dall’angoscia, l’imperativo di una memoria che attraversi i millenni, con tutti i loro Olocausti e diaspore, e il piacere dello sfogo immediato ed esplosivo della battuta. Per parlare di sé, Ovadia si oggettiva nel ruolo di direttore d’orchestra, e poi si moltiplica in tre personaggi (l’orfano piagnucoloso di Olek Mincer, l’orfanella sguaiata e petulante della scatenata Lee Colbert, il decrepito attore di varietà che pensa ancora alla mamma di Ivo Bucciarelli). Soprattutto, si proietta nella sua travolgente Theaterorchestra, indisciplinata e coreografica banda di orfanelli.
Il patetico, l’eccesso di sentimento, vengono subito ribaltati nel grottesco, deformati nei consapevoli oltraggi del guitto. Il pregiudizio e la presunzione vengono ogni volta ridicolizzati con una barzelletta. La verità dell’intelletto si disintegra in un motto di spirito. Solo a quel punto, dopo il pianto e il riso, oltre il sentimento e l’ideologia, dopo aver fatto il suo nido dentro il dubbio, una verità umana può finalmente riaffiorare: attraverso una storiella, una poesia, una canzone magari sgangherata, l’eco di una banda. È una verità dolente,
imbevuta di malinconia, lo sguardo perso in una nostalgia senza oggetto né redenzione. È una verità che - come nel Teatro della Morte di Tadeusz Kantor, che è un po’ il suo modello di riferimento - Moni Ovadia può ritrovare in quella terra di fantasmi che è il palcoscenico, così vicino ai confini del Nulla o dell’Apocalisse. Per poi ridere di sé, ancora una volta, e ricominciare a cantare.



facebook © 2011 OYLEM GOYLEM TUTTI I DIRITTI RISERVATI   |   P.IVA 13071690153   |   cookies policy

 

Utilizziamo cookies tecnici e di Analytics (anonimi) per rendere il nostro sito fruibile e funzionale