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© Photo: Franco Maria Viganò
 

D’un tratto nel folto del bosco

di Fabio Vacchi
Melologo su testo di Michele Serra tratto dal romanzo di Amos Oz
Sentieri Selvaggi
Carlo Boccadoro, direttore
Moni Ovadia, voce recitante
Prima esecuzione assoluta al Teatro Franco Parenti di Milano il 12 settembre 2010
“C’è qualcosa che mi ha spinto a collaborare con Amos Oz, Michele Serra e Moni Ovadia ed è la visione condivisa di un idealismo relativizzato, che, pur rendendosi conto dello stretto legame tra bene e male, in sé e fuori di sé, non rinunci a credere che valga la pena di migliorare il mondo, limitando il più possibile la sofferenza di chi lo abita. L’emotivamente intenso, direi passionale, amore per gli animali, che anche ci accomuna, ancora conduce a una necessità di compromesso e solidarietà tra esseri, generazioni, culture, persino specie differenti. La favola per bambini e adulti di Oz - Serra, racconta di uno sforzo che, proprio nel suo essere autoironico e pietoso, custodisce la chiave per una possibile interpretazione del mondo.”

Fabio Vacchi
«La militanza dell’arte». A colloquio con Moni Ovadia
a cura di Marilena Laterza
[...] Una delle chiavi di lettura del testo di Oz si può ravvisare nell’esortazione all’ascolto, all’incontro con l’alterità, al rispetto delle diversità, in forma personale e privata, ma anche – pensando al finale aperto sul ruolo di Maya e Mati una volta tornati al villaggio – nell’invito a una responsabilità pubblica, comunitaria, collettiva. A lei che rappresenta un felice crocevia di culture e di esperienze, provocatoriamente domando: come evitare il rischio di essere retorici e di affrontare questi temi soltanto a teatro, mentre le nostre città reclamano processi di integrazione che appaiono sempre più un’utopia? D’un tratto nel folto del bosco è un testo poderoso, commovente, pieno di grazia, di profondità, di pathos delicato, con tutta una serie di possibili letture, dal problema della violenza nei confronti degli animali – contro la quale mi batto non solo come vegetariano, ma anche con la denuncia del fenomeno – alla riflessione sul rapporto con i nostri compagni di viaggio, con noi stessi, con l’alterità. Ed è proprio qui la grandezza di questa favola e parabola: nella difficoltà che l’essere umano, per come è venuto strutturandosi fino ad ora, ha con l’accoglienza dell’altro. Un classico è l’esempio dei Rom, che non sono tollerati perché hanno un altro modo di concepire la vita, e questo scatena aggressività. Come dice giustamente Julia Kristeva – psicanalista, intellettuale e scrittrice bulgara naturalizzata francese – in Étrangers à nous-mêmes, un libro che è una pietra miliare, noi odiamo tanto l’altro perché mette in risonanza le corde di simpatia dell’altro che è dentro di noi: abbiamo paura dello straniero che è in noi stessi. Preferiamo stare quieti, non rimetterci in gioco, e scotomizziamo dalla società chi viene a metterci in crisi mostrandoci un’altra maniera di esistere. Detto questo, la retorica si evita con la militanza. La mia militanza spazia a tutto campo, per cui sono impegnato in tutte le battaglie contro il razzismo, le discriminazioni, l’omofobia, l’islamofobia… Personalmente, mi batto con tutte le mie forze nelle piazze, nelle assemblee, ma parlo di queste cose anche a teatro, perché il teatro per me è uno strumento etico, sociale e politico – nel senso nobile del termine, e non partitico.

Come la letteratura per Amos Oz? Il finale aperto di Amos Oz è scritto da un uomo che vive in una società come quella israeliana, che si è chiusa dentro una specie di fortezza, coltivando il mito sicuritario, un totem, ormai, che legittima qualsiasi cosa. Non tutta la società né Oz, naturalmente, ma l’establishment, coloro che sono responsabili della pólis israeliana, hanno visto solo il terrorista, Hamas, e non il popolo, la gente, gli esseri umani; hanno rifiutato di vedere l’altro nella sua vera umanità, lo hanno espulso e cancellato dal proprio orizzonte. Oz, quindi, affida ai bambini il compito di uscire da questo cul-de-sac perché gli adulti della sua generazione hanno fatto bancarotta fraudolenta. Gli adulti sono incastrati nel loro sguardo, non sanno rompere, non hanno energia, non hanno lungimiranza, si sono troppo avviluppati, hanno sviluppato delle callosità nell’anima, ma i bambini, i giovani, hanno la freschezza, la curiosità, la capacità di vedere oltre e di riconoscersi. L’ammaestramento alla discriminazione e al rifiuto dell’altro viene sempre dal mondo adulto, dei cosiddetti ‘normali’, delle cosiddette ‘maggioranze’. Ma le ‘maggioranze normali’ non hanno capito che il loro è solo un modo di vivere, non il modo; e che la maggioranza ha diritto di governare, ma non ha diritto di avere ragione. E allora ci si deve affidare alle minoranze, come Maya e Mati, e a coloro che percepiscono l’alterità perché la coltivano in sé, e quindi la percepiscono e la offrono come ponte nei confronti dell’altro. Ci sono documentari che mostrano la comunità gay in Israele. Ed è meraviglioso e sconvolgente scoprire che le coppie israeliano-palestinesi non sono omologate, litigano sulla questione, discutono anche vigorosamente, però si amano, si riconoscono e si accolgono umanamente: se fosse per loro la pace ci sarebbe già. Una capacità di mettere la propria alterità a servizio della differenza che, per il resto, manca totalmente tra gli orientali e, in particolare, nella società israeliana. Credo che, sullo sfondo, in D’un tratto nel folto del bosco, ci sia anche questa consapevolezza, con la grazia e la profonda umanità di Oz, così diverso da me che sono più radicale. Ma forse ha ragione lui, forse bisognerebbe essere sempre profondamente umani e, come diceva Che Guevara, non dimenticare mai la tenerezza.

(I testi pubblicati sono estratti dal programma di sala)

   
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