Rom disperati, dobbiamo aiutarli

Lettera di Moni Ovadia

Caro direttore, le luci della ribalta stanno progressivamente sfumando i loro riflettori sull’ affaire Haider. Il piccolo aspirante fuehrer della Carinzia, provetto sportivo (anche Adolf Hitler era un aggraziato pattinatore), entra nella normale anormalità sub judice. Lo tengono d’ occhio. Come tutti i demagoghi cercherà credenziali di buona condotta presso quelle istanze nazionali e internazionali sempre disposte a rivedere il giudizio, perché alla fine se il signor Haider fosse meno diretto e meno nostalgico diverrebbe accettabile, come certi sindaci del nostro Nord-Est felix. Il bel Jeorg forse reciterà anche uno strategico mea culpa. La rappresentazione delle scuse agli ebrei gode di notevole successo. Personalmente in quanto essere umano ed ebreo, in questo momento ho scarso interesse per questo tipo di «teatro». Oggidì gli indicatori di civiltà sono altri. Mentre l’ euforico Valzer dei mercati riprende il suo posto nello sfavillio di una scena festante, gli uomini decenti, sparpagliati nelle periferie degradate, cercano giorno dopo giorno di ballare il pas de deux di una vera «città dell’ uomo» che è il luogo della pari dignità per l’ altro, quand’ anche sia piccola minoranza. Coppia di ballerini: il grande principio e la prassi quotidiana del suo farsi. Sono spesso sollecitato a partecipare a queste attività coreutiche. Recentemente sono stato invitato all’ università di Roma da un professore di matematica per parlare dei problemi della società multietnica. C’ erano rappresentanti di varie etnie tra cui quella rom. Tony - uno zingaro serbo da molti anni in Italia - e io ci siamo abbracciati subito, le nostre facce sprizzavano piacere, abbiamo alle spalle un destino comune. Ma il presente no. Tony, con la sua magnifica espressione da picaro gitano e la sua cadenza cinematografica, non mi ha invitato alla festa musicale di «Train de Vie» che ha infiammato le anime belle travolte da commozione folclorica. Tony si è fatto serio e mi ha spiegato che lui e la sua gente hanno un problema serio, di diritto a una vera vita. Duecentocinquanta persone fra cui cento bambini, sessanta dei quali in età scolare, vivono nel fatiscente campo rom di via dei Gordiani. La comunità si trova in un quartiere ad alta densità abitativa, è stanziale, chiusa, nessuno vi entra, nessuno vi esce se si fa eccezione per i nuovi nati, gli unici scambi con l’ esterno avvengono grazie alla scuola perché il campo rientra nel programma di scolarizzazione dei bambini rom avviato dal comune di Roma. Ma l’ intervento educativo è minato dalle condizioni di vita, dalle precarie condizioni igieniche causa di malattie croniche soprattutto fra i bambini, nonché da quelle psicologiche frutto del degrado abitativo. Questa comunità vive in tutto e per tutto come nelle favelas brasiliane, casupole precarie addossate le une alle altre, fatte di materiali d’ occasione altamente infiammabili, il tutto in un labirinto di fango e di sporcizia. In ogni baracca risiedono almeno sette o otto persone, e i bambini sono costretti a condividere modelli di vita adulti, in un contesto di totale promiscuità. L’ intero campo, inoltre, è servito da un’ unica fontanella prestata dal prete dell’ adiacente parrocchia. A fronte dell’ indifferenza di alcune istanze istituzionali, ha potuto prendere vita un progetto elaborato dallo I.A.C.P., proprietario dell’ area, e finanziato dalla Regione Lazio, per una soluzione definitiva del problema abitativo dei rom, nel quadro di una generale riqualificazione del quartiere. Il progetto di via dei Gordiani consiste nella costruzione di un villaggio di 42 moduli abitativi ed è il risultato di un dialogo con la gente del campo e di una accurata ricerca sull’ architettura rom, tiene pertanto conto della organizzazione della comunità, strutturata sull’ unità base della famiglia estesa, sull’ identità di religione, sulla provenienza etnica e geografica. Il progetto non si limita a fornire ai rom un’ abitazione, ma è diretto a favorire la loro integrazione nella città e costituirebbe una prima concreta risposta al problema dell’ accoglienza, un paradigma a cui rapportare i futuri interventi destinati al popolo zingaro ma anche ad altri immigrati e alle categorie «speciali» in genere. Questa straordinaria utopia ha le carte in regola per essere messa in opera, mancano solo pochi passaggi burocratici, ma sono imminenti le elezioni regionali in un clima politico al calor bianco. Opportunismi elettorali potrebbero suggerire di procrastinare le firme necessarie e una giunta regionale meno sensibile al problema delle minoranze disagiate in seguito finirebbe per bloccare l’ attuazione del progetto. Le persone per bene hanno il diritto/dovere di sapere che i bei proclami hanno bisogno di un terreno in cui fruttificare. La metastasi della discriminazione e dell’ intolleranza si contrasta costruendo la civitas della solidarietà e della piena dignità per ogni categoria di cittadini, secondo il principio dello jus soli in opposizione allo jus sanguinis madre di ogni legittimazione alla violenza. E’ tempo che si faccia strada la consapevolezza che la libertà e la felicità dell’ altro sono la garanzia più radicale della nostra felicità e libertà. Cominciamo da via dei Gordiani a Roma.

Moni Ovadia
Il Corriere della Sera - 21 febbraio 2000 - Pag.19


   


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