Lager_italiani-COP
 

Il nazismo che è in noi

L’iperbole è una delle forme retoriche preferite del linguaggio sopravvissuto alla morte apparente delle ideologie. La terminologia che definisce le modalità del totalitarismo nazista e dell’universo concentrazionario, pratica estrema e senso ultimo di quel regime, oggi viene mutuata con ridondanza da coloro che vogliono attirare l’attenzione e l’indignazione dell’opinione pubblica verso le forme della violenza, della guerra, del razzismo o della repressione contro popoli, minoranze, ceti sociali marginali. Molto spesso, l’uso di quella terminologia è sensazionalistico, ignora i contesti, le specificità e le differenze, ha il solo scopo di soddisfare il desiderio di schieramento militante a buon mercato da parte di coloro che se ne servono.
Un libro sui CPT dal titolo I lager italiani, sembrava rientrare in questa fattispecie e prima di accingermi alla lettura, ho provato un moto di fastidio per la scelta di quel titolo minaccioso. La mia sensazione di disagio era del tutto immotivata. Il titolo è pienamente legittimo e corrisponde con coerenza ad un’opera che ha un intrinseco valore narrativo e una rilevanza morale indiscutibile. Leggendo questi racconti straordinari e paradigmatici che danno voce e fanno emergere dall’inesistenza uomini a cui l’appellativo infamante di “clandestino” ha tolto persino le dimensioni reali dell’essere vivente, prendiamo coscienza di quanto la nostra pseudodemocrazia consumista, conviva con nonchalance con l’eredità totalitaria nazifascista e capiamo in quale misura, una parte della classe politica che ci governa, sia a proprio agio con i princìpi concettuali che ispirarono quel sistema.
I clandestini rinchiusi nei CPT, non vivono come gli internati dei lager nazisti. Se ci riferiamo alle loro condizioni strettamente materiali, la correlazione è improponibile ed è lo stesso autore a segnalarcelo nel suo acuto saggio conclusivo per non prestare il fianco ad eventuali critiche capziose che mirassero strumentalmente a banalizzare l’intero discorso. Il merito non è quello delle pur ignobili condizioni della mera esistenza dei reclusi, indegne di una qualsivoglia civiltà, bensì le coordinate giuridiche ed ontologiche che definiscono il clandestino e che ne legittimano la reclusione in uno spazio d’eccezione in cui viene spogliato di ogni status e di ogni diritto.
Marco Rovelli, con la forza di una narrazione che trapassa ogni possibile indifferenza o attenuazione di convenienza e con una lucida, appassionata riflessione politico-filosofica nel solco dei fondamentali studi di Hannah Arendt e di Giorgio Agamben, dimostra che i CPT sono dei lager veri e propri e che il ventre che partorisce questo obbrobrio, è il ventre pasciuto della nostra società occidentale.
Ho visitato il CPT di via Corelli a Milano a pochi mesi dalla sua istituzione come inviato del “Corriere della Sera” e in quell’occasione scrissi che quei luoghi erano inaccettabili per un paese che si vuole libero e democratico. In quella circostanza parlando nella loro lingua con alcuni dei reclusi bulgari, avevo percepito la durezza e l’iniquità della loro condizione, ma non nei termini di cui ho letto in queste pagine.
L’ascesa al governo di Berlusconi e della sua coalizione, che annovera fra i suoi più “autorevoli” esponenti gli eredi del fascismo, ha portato alle estreme conseguenze il senso ultimo di ogni istituzione concentrazionaria con la compiaciuta coerenza di un’ignobile cultura nazionalista. La Bossi-Fini ha dato il là alla fascistizzazione dei CPT. Le anime belle dell’eterna retorica “italiani brava gente”, i sedicenti moderati che coltivano la ferocia contro “l’altro” dietro le linde tendine del benpensantismo, non si facciano illusioni, quando questa vergogna emergerà in tutto il suo schifo, la loro infamia sarà evidente.
Dopo Auschwitz, dopo i Gulag, nessuno può essere assolto per avere girato la faccia al fine di non vedere e non sapere.
Il clandestino è l’ebreo di oggi. Egli è ridotto a “sotto uomo” prima dalla sinistra cultura retorica “sicuritaria”, poi una legge fascista lo dichiara criminale per il solo fatto di essere ciò che è, un essere umano che ha fame e cerca futuro per sé e i suoi cari e che per questo viene privato di qualsivoglia status, sottoposto alla violenza della reclusione, sottratto alle tutele minime che spettano ad un essere umano per diritto dei nascita. Una volta sepolto in uno spazio d’eccezione, il clandestino è alla mercè di arbìtrii, percosse, torture, privazioni, abusi sessuali. Il suo “rimpatrio” lo sottopone ad ulteriori brutali abusi e talora al rischio reale di perdere la vita nel modo più atroce.
L’abolizione immediata dei CPT, la ricerca di soluzioni autenticamente democratiche per il problema dei migranti, deve diventare una priorità politica e umana. È urgente denunciare il carattere totalitario di questa vergognosa istituzione e smascherare i politici che fanno i pellegrinaggi della Memoria per rendere omaggio alle vittime della Shoà, calcando gli zucchetti dell’ipocrisia per rifarsi l’immagine, mentre a casa praticano e difendono la logica dei carnefici.

(Postfazione) Moni Ovadia

facebook © 2011 OYLEM GOYLEM ALL RIGHTS RESERVED  |   P.IVA 13071690153   |   cookies policy

By using this site you agree to the placement of cookies on your computer in accordance with the terms of this policy