Recensione spettacolo

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"Senza confini. Ebrei e zingari" per bMagazine

Sono abbastanza sporchi, vivono in baracche e, qualora prendano in affitto stanze fatiscenti, gli occupanti da due diventano quattro, cinque, dieci. Di razza negroide, sono inclini al furto e non di rado violentano donne. In Senza confini. Ebrei e zingari Moni Ovadia legge il testo che ho sommariamente riportato mostrando quanto sia simile la sorte dei poveri del mondo quando lasciano la propria terra, ammesso che ce l'abbiano una terra. L'analisi in questione non riguarda infatti il popolo zigano bensì gli immigrati italiani negli Stati Uniti.

Apposite commissioni parlamentari hanno cercato di fare chiarezza sugli immigrati italiani e "nel 1922, in Alabama, un uomo di colore accusato di miscegenation (mescolanza di razze) per avere avuto rapporti sessuali con una bianca venne assolto in quanto la donna «non era bianca, era italiana»" (Giordano Bruno Guerri). Nello spettacolo che venerdì sera ha fatto tappa al Teatro Carlo Gesualdo di Avellino, Moni Ovadia cerca in maniera estremamente semplice di neutralizzare i guasti dell'ottuso bombardamento telegiornalistico. Grazie al quale sappiamo un'infinità di cose sugli zingari in Italia, Rom in testa. Che sono ladri, che sono ladri, che sono stupratori, che sono ladri, che sono assassini e che sono ladri.

Non che manchino criminali tra gli stranieri in Italia, ma immaginiamo di essere chiusi in casa senza avere amici e conoscenti italiani. Guardando il telegiornale, tra femminicidio, politici corrotti, truffe, camorra, assassini, saremmo indotti a credere che gli italiani sono effettivamente un popolo di malviventi, peraltro negroide. Fortunatamente, cambiando canale finiamo sul programma di Barbara D'Urso e scoprendo che in realtà l'Italia è bellissima e piena d'amore, infatti Berlusconi si è fidanzato.

Basterebbe andare oltre quel mal du siècle che è la cronaca, il culto instupidito del fatto... di qualche fatto. Con una mossa semplicissima, Moni Ovadia rimette a posto le cose. Ci fa ascoltare la musica dei Rom. Una musica cui si sono abbeverati i migliori compositori della storia del mondo – si pensi alle Danze ungheresi di Brahms – e che, esercitando le più disparate influenze, ha contribuito a fondare i generi oggi ascoltati da tutti i giovani del mondo, "compresi quelli razzisti", precisa Ovadia con la sua comicità ebrea. Un'ironia particolare, secondo il drammaturgo, comparabile in qualche modo con il senso dell'umorismo napoletano, alimentato da esistenze dure. "E se pensate che i napoletani alle brutte vivono nei bassi e gli ebrei, come popolo, una casa non ce l'hanno avuta per secoli... è chiaro che noi ebrei abbiamo dovuto sviluppare al massimo il senso dell'humour!"

In maniera controversa, gli ebrei alla fine una casa l'hanno trovata e "il loro immenso calvario ha avuto pieno riconoscimento e un immenso edificio di testimonianza", mentre il popolo rom "continua a subire il calvario del pregiudizio e dell'emarginazione". Di qui l'urgenza improcrastinabile, per Ovadia, di questo spettacolo sulla "comune vocazione delle gente in esilio". Uno spettacolo non troppo denso ma che funziona bene, grazie alle ricche suggestioni sonore della musica dei Rom (che forse avrebbe avuto bisogno di un'amplificazione un po' più coinvolgente). Re della scena Marian Şerban al cymbalon, strumento a corde battute discendente del salterio con cui Davide componeva i suoi salmi.

Ammirato in prima persona per la destrezza dei suonatori gitani (accompagnati da due musicisti italiani), Salomone Ovadia in persona si chiede: "Ma come fanno ad essere così abili, così lesti sugli strumenti? "Puorca puttana, se ai matrimuoni zingari non suoni cuosì ti sparano!"


(Alessandro Paolo Lombardo)

 

 

 

 

 

 

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