Goles-note © Photo: Andrea Sacchi
 

Goles - Note d'autore

La gran parte degli uomini aspira ad avere una propria casa e spesso questa aspirazione si sposa a quella di far parte di una nazione e di avere una propria patria. Fiumi di parole sono stati versati per esprimere questo sentimento che si suole definire naturale perché esso sembra essere iscritto nel codice genetico degli uomini come categoria a priori. Probabilmente ciò non è automaticamente vero, il sentimento di appartenenza è una forma culturale che trova una prepotente spinta istintuale ed emotiva nella fragilità e nella inadeguatezza dell'uomo di fronte a se stesso e al proprio anomalo destino.

 

La perdita di quello che si ritiene un irrinunciabile ubi consistam è sempre motivo di acute sofferenze. Pochi hanno saputo cogliere in quella perdita una condizione di privilegio, pochissimi hanno saputo celebrarla ed esprimerne l'estremo valore così come lo ha radicalmente affermato il filosofo Emil Cioran in uno dei suoi più felici aforismi: "Un uomo che si rispetti non ha una patria. Una patria è una colla". I nostri calendari celebrano vittorie di guerra, eventi religiosi e il ripristino di condizioni di appartenenza. Non ci sono celebrazioni degli esili, neppure in chiave di paradosso. Persino gli esuli fortunati non si celebrano in quanto tali.

Solo due popoli hanno saputo e voluto glorificare la condizione dell'esilio come splendore della condizione umana: il popolo rom e gli ebrei della yiddishkeit. Per i primi la patria è sempre stato il viaggio, il tetto, un cielo stellato o gravido di nubi. I secondi hanno costruito una patria dell'esilio in piccoli villaggi sparsi nelle terre dell'Europa orientale, sotto cieli bassi e gonfi di neve nelle case dai tetti di legno e fango. Lì hanno sognato una patria lontana e impossibile illuminata da un sole spirituale. Per duemila anni lontani dal loro sogno hanno saputo essere popolo senza confini, senza burocrazia, senza eserciti, senza bandiere, popolo di filosofi e profeti che esercitavano le più umili professioni e quando venivano cacciati dai pregiudizi si mettevano in cammino per altri esili più lontani.

Così i loro maestri cantavano l'esilio: il maggid di Mezeritch diceva ora nell'esilio la presenza divina scende più facilmente che nel tempo in cui era in piedi il Grande Santuario di Gerusalemme. Un re fu cacciato dal suo regno e se ne andò ramingo. Se arrivava in una casa povera dove era alloggiato malamente e malamente cibato ma accolto da re, il suo cuore era lieto e parlava con la gente di casa così familiarmente come una volta faceva alla sua corte con i più intimi. Così fa anche D-o da "quando è in esilio." Nel mondo globalizzato fatto di finte patrie omologate, coltivare la spiritualità dell'esilio è un'arte difficile e preziosa. La Moni Ovadia Stage Orchestra intraprende un viaggio nelle musiche, nella musicalità e nei racconti dell'esilio come condizione interiore della libertà e della centralità dell'uomo.

   
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