Dalla sabbia dal tempo - Rassegna stampa

 

Versi e canzoni di un viaggio in cerca di sé

di Odoardo Bertani

Avvenire - 22 maggio 1987

 

In corso ormai da sette settimane, il festival internazionale di cultura ebraica va sviluppando un programma assai bene studiato, e dunque interessante e armonico, sia che si dedichi allo studio della spiritualità, sia che esplori il mondo dell’espressività poetica e scenica. E la risposta è una partecipazione costantemente folta alle varie iniziative, così da dover ritenere che la manifestazione non sarà trascorsa invano.

Dobbiamo riferire di uno spettacolo intenso, tenero e accorato, bello come il suo titolo: Dalla sabbia dal Tempo, il sottotitolo lo definisce “breve viaggio nell’ebraitudine”. E’ un collage vivace e mosso, ora malinconico ora allegro, di pensieri, di storielle, di frammenti d’autori grandi e vari; è un testo alchemico che trascrive emozioni accumulate vivendo sempre più consapevolmente una appartenenza; soggettività, non disordine, poiché a rendere unitario il copione sta l’idea di viaggio, ossia di ricerca e memoria di alcuni connotati dell’ebraitudine, di cui emergono il senso della solitudine, l’inquieta domanda su se stessi e il proprio destino, nonché gli aspetti fenomenici costituiti dalla capacità di un’ironia quasi surreale, di scherzare su tutto, e di una gioia vitalistica che si esprime nelle forme sacre della musica e della danza.
Dello spettacolo è preminentemente autrice Mara Cantoni, che ha provveduto a un intelligente copione, che è testimonianza antologica “minore” ma preziosa di umori e di gusti e che alterna le parti recitate a quelle cantate; sono una quindicina di canzoni, con le loro melodie ora festevoli ora gravi, tratte dal patrimonio yiddish, cioè tedesco-ebraico, e da quello spagnolo-ebraico, a punteggiare la rappresentazione, che ha luogo su un palcoscenico coperto di sabbia e chiuso da un nero apparato. Vi giocano luci accorte ed efficaci, provvedute, come tutto il resto, dalla Cantoni, che organizza anche un preciso e delicato movimento del complesso, con effetti assai suggestivi.
E il complesso è dato da sei ottimi musicisti e da due attori: bravo, nel suo personaggio petulante e disarmato, il polacco Olek Mincer, e sorprendente, ammirevole per versatilità e incisività Moni Ovadia, un po’ attore e un po’ intrattenitore, quindi cantastorie e folk-singer; una performance, la sua, d’alto livello nella semplicità del disegno mimico e dei toni; aggiungi la padronanza di più lingue oltre i due dialetti e la scioltezza nei passaggi e il senso di nessuna fatica che l’Ovadia pone nella sua lunga esibizione ricca di concentrazione di segni e variazioni. La rappresentazione ha ottimo ritmo e figurazioni sempre nuove; si appoggia su sicure arguzie e su incanti musicali; insomma, è accattivante in ogni sua parte, e anche i costumi (di Luigi Benedetti) concorrono felicemente alla compiutezza di esso. Dunque, una “chicca” di intelligenza e di comunicabilità, che ha meritato gli applausi calorosissimi del bel pubblico del Salone Pier Lombardo.



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