Dybbuk - Rassegna stampa

L'Olocausto urla ancora

di Osvaldo Gurrieri

La Stampa - 9 aprile 1995

 

Non sarà facile dimenticare il "Dybbuk" che Moni Ovadia presenta al Franco Parenti di Milano. Raramente abbiamo assistito a un rito teatrale tanto misterioso e necessario, tanto risentito e struggente, da credere di essere finiti non fra le fascinazioni di un fantasma scenico, ma nel cuore della tragedia

più lunga della Storia. C'è l'Olocausto al centro dello spettacolo ideato da Moni Ovadia e Mara Cantoni e prodotto dal CRT Artificio; c'è l'incubo della Shoah; e c'è la paura che, sulla spinta di assurdi revisionismi, possa smarrirsi il ricordo del più scandaloso fra i genocidi. Era inevitabile che Ovadia arrivasse al "Dybbuk", lo ammette lui stesso. Nella cultura yiddish, il dybbuk indica l'anima inquieta di chi, morto anzitempo e in modo violento, si reincarna per concludere

la propria missione terrena. Ai primi di Novecento, il dybbuk diede il titolo al dramma del russo An-ski. Raccontava di due fidanzati, di lui che si reincarnava in lei per combattere il Male. Opera toccante, ma non un capolavoro. Ovadia e la Cantoni partono proprio da lì, da quel dramma diventato un simbolo della cultura ebraica orientale, ma essi lo reinventano per trasformarlo nell'opopea tragica della deportazione e dello sterminio. Il palcoscenico è quasi nudo. C'è soltanto una pedana con qualche sedia e con dei leggii senza spartiti. In un angolo del proscenio scorgiamo un carrettino su cui sono ammassati alcuni strumenti musicali. Non esistono né quinte né sipario. Il rito memorialistico comincia con l'entrata in scena della TheaterOrchestra, portata a dodici elementi. Indossano tutti casacche grige con la stella di David sul cuore, hanno i piedi nudi o, tutt'al più, infilati in rozzi sandali di tela. Non sono soltanto i magnifici strumentisti di Ovadia, sono la folla immensa sei perseguitati e dei deportati. Arrivano (anch'essi a piedi nudi) lo Sposo e la Sposa, che non riusciranno a celebrare le nozze. Soltanto Ovadia veste di tutto punto. Ma lui, nella circostanza, non è un figlio sventurato di Israele, è il Narratore, è la cosci-

enza storica di ciò che sta per accadere.

E' impossibile descrivere gli avvenimenti del "Dybbuk". Non c'è una vera azione teatrale; piuttosto ci sono frammenti di azioni legate e unificate dalla presenza di Ovadia. Ci troviamo dinanzi a una sorta di "cantata", a una partitura fonico-gestuale dalla quale esplodono minuscoli teatralismi e soprattutto il canto inesauribile, le implorazioni, le indignazioni, i sarcasmi, le malinconie. Mai Ovadia ci è sembrato così grande. Si esprime quasi esclusivamente in yiddish (ma è disponibile un opuscolo con la traduzione italiana), eppure fra le sue labbra, la misteriosità della lingua non è un limite, anzi si incide con la violenza nella coscienza dello spettatore. E quelle sue parole, quei suoi canti, quei suoi frantumi di poemi, di teatro, di scritture profetiche hanno la straordinaria facoltà

di trasformarsi in una sostanza dura, suscitano una drammaticità che i musicanti e gli sposi interpretano come creature dominate da un destino devastatore: sono povere figure vaganti che crollano e si rialzano, si cercano e si perdono, appesa alla vita come le marionette al filo. Ma Ovadia non è il loro marionettista: è la loro voce, anzi il loro dybbuk, che grida e prega e si dispera perchè questa è la sua missione, perchè in qualche modo bisogna combattere, se si deve continuare a vivere: "Quante volte la nostra città è stata distrutta, quanti incendi l'hanno ridotta in cenere, ma la sinagoga è rimasta in piedi...Vivrò, vivrò, vivrò!"

Non c'è un solo cedimento nella serata, non una falla nell'impegno straordinario di Ovadia e dei suoi compagni. Il pubblico appare soggiogato, non osa applaudire neppure le scene di più struggente intensità. Soltanto alla fine prorompe in un entusiasmo irrefrenabile e liberatorio.
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