Dybbuk - Rassegna stampa

 

L'orchestra della Storia

di Maria Grazia Gregori

L'Unità - 18 marzo 1995

 

Per ricordare, ma senza ideologia della morte, Moni Ovadia ha avuto un successo clamoroso al Franco Parenti con "Dybbuk", riscrittura fra passato e presente non solo del classico yiddish di An-ski che dà il titolo allo spettacolo, ma anche del "Canto del popolo massacrato" di Yitchak Katzenelson, poema epico in quindici canti sullo sterminio degli ebrei dell'est. Il testimone grigio

Ricordare tenendo ben presente la Shoah, le terribili sofferenze, il tragico destino di un popolo passato per i camini. Eppure Moni Ovadia, ebreo al cento per cento e sinceramente progressista, non fa del suo spettacolo solamente un atto di condanna per le coscienze in un momento in cui il revisionismo sembra andare di pari passo con la voglia di dimenticare, di accantonare quello che è stato, ma sviluppa il senso della storia in energia, in sguardo aperto al presente. Assumendosi infatti il ruole del Testimone, vestito di grigio con la bombetta dello stesso colore, sguardo da profeta, scarpe polverose di chi ha molto camminato, Ovadia sembra arrivare in scena da lontananze abissali, da inquieti ricordi. E lui, in fin dei conti, la maschera e il megafono dell'Olocausto, il posseduto dal dyb-

buk, il fantasma, che si è incarnato nella sua voce roca e un po' stridula, nelle nenie ossessive, nei valzer della nostalgia e del dolore.

Tutto cominciò quel terribile 10 maggio del 1933 in cui la voce metallica e fanatica di Goebbels decretò il rogo dei libri. Da quel giorno i cieli si oscurano e si sprofondò in un abisso senza fine.

Ecco allora in scena, sul palcoscenico nudo del Franco Parenti di Milano, una sposa in abito bianco e velo di pizzo e uno sposo in abito da cerimonia, occhiaie scure da morti viventi e piedi nudi. Li accompagna un'orchestrina di dodici elementi, dodici uomini a piedi nudi e la grigia divisa da deportati, ognuno con il suo strumento, costretti ad esibirsi per i carcerieri suonando Rosamunda, ma

che si assumono anche il compito del ricordo nell'auto-rappresentazione, attraverso le parole degli sposi, della propria tragica storia. L'orchestrina i cui membri appaiono uno ad uno quasi evocati dalla morte, dal regno delle ombre; si incarna, per così dire, nel Testimone che dà voce ai canti, che li accompagna nel loro calvario di vittime predestinate, le catene al collo, sull'oscena pedana delle loro esibizioni, mentre una metallica voce in tedesco scandisce i terribili numeri di una sequela inarrestabile di morti.

La storia di un popolo

Così i piani del ricordo, della denuncia, della storia di un popolo, della sua cultura si intrecciano strettamente in questo teatro-evocazione che fa appello alla ragione e al cuore, in questo spettacolo che è come un pugno nello stomaco, (nasce da un'idea di Ovadia stesso e di Mara Cantoni) parlato

in yiddish e un po' anche in italiano e tedesco, cantato in yiddish, mentre l'onda degli strumenti si abbatte con inesorabile fascino sugli attoniti spettatori. Un uragano di applausi.

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