La bella utopia - Rassegna stampa

 

«Bandiera rossa riderà. Con Moni.»

di Maria Grazia Gregori

L'unità (spettacoli) - 23 settembre 2007.

 

Sta per andare in scena l'utopia. Anzi La bella utopia come dice il titolo dello spettacolo. Un’utopia come la nascita del comunismo e la rivoluzione bolscevica: un grande sogno ma anche persecuzioni, sangue, gulag. Parola obsoleta, oggi, quella di utopia. Parola di cui sembrano essersi perse le tracce, che evoca inquietudine, smarrimento ma anche speranza. Questa utopia comunista trova il suo narratore in Moni Ovadia (in scena al Teatro Strehler di Milano da mercoledì 26) che la definisce «il più grande ideale di liberazione mai partorito dalla mente umana senza ricorrere alla fede, alla religione, a qualsiasi forma di credenza».

A questa utopia Ovadia ha dedicato un libro pubblicato da Einaudi Lavoratori di tutto il mondo, ridete, che ha ispirato questo spettacolo (di cui è sottotitolo ideale) dove rivoluzione, ideali, tragedia, satira, risate, sgomento, dolore sono mescolati insieme. Proprio in un momento in cui la parola, anzi l’idea stessa di utopia è guardata con sospetto, tu realizzi uno spettacolo che pone al suo centro non tanto un’utopia astratta quanto un’utopia che per molti è stata reale come quella rappresentata dal comunismo e dalla rivoluzione russa. Una provocazione? «È proprio perché si ha quasi vergogna a pensare a questa parola che ho voluto fare questo spettacolo. Perché se non esiste l’utopia si è solo dei servi. Certo bisogna guardare criticamente a questa idea di utopia proprio come scrive Claudio Magris in un libro bellissimo Utopia e disincanto. La storia del comunismo non è stata solo una storia di orrori come sostiene un certo revisionismo di stampo televisivo. È stata anche una storia di uomini, di sacrifici, di sangue, di ideali. Un’utopia a due facce e il disincanto con cui guardare a questa utopia è quello dell’umorismo che ci permette di prevenire la violenza. Come dico sempre: coniugare Karl Marx con Groucho Marx. Del resto Marx, che per me è uno dei più grandi uomini che abbiano calpestato la terra, era un fine umorista. Ci raccontano che quando ormai viveva appartato, chi andava a trovarlo poteva sentirsi dire a bruciapelo una delle sue fulminanti, celebri battute “se devo dire la verità forse non sono tanto marxista”». Insomma tu dici che la rivoluzione russa, il comunismo, hanno avuto una doppia personalità, che sono stati - per così dire - schizofrenici… «In un certo senso… Il comunismo è stato Stalin ma anche Majakovskij e Mejerchol’d, il maestro teatrale di noi tutti. Ma Stalin che era un uomo e non un dio, è stato condannato da Kruschev prima a porte chiuse e poi pubblicamente. E anche da noi il comunismo ha avuto persone, a partire da Gramsci, che hanno onorato e onorano il nostro paese… In questo mio spettacolo come nel mio libro voglio riprendere il filo di questa utopia con quel disincanto di cui dicevo prima. Lo faccio come so fare io, con lo sguardo urticante dell’umorismo ebraico ma anche con la consapevolezza che se fossi vissuto a quei tempi sicuramente sarei stato fucilato. Lo faccio attraverso un personaggio, l’ebreo Rabinovic, ironico, beffardo ma…» Ma… si potrebbe obiettare che il capitalismo in fin dei conti ha vinto. «Sia chiaro non ho nessun rimpianto per quel sistema, al contrario di quanto pensa Galli Della Loggia che mi ha attaccato più volte sul Corriere, ma rimpiango i molti uomini eroici che ci sono stati. So che la bandiera rossa, come dice il grande poeta Evtušenko, è stata allo stesso tempo sorella e assassina. Ma dovrei forse dare come modello ai giovani uno come Corona? Quei giovani che non leggono più Marx, che, come scriveva Furio Colombo su l’Unità, sono pronti per offrire un lavoro a costo zero? Dovremmo dire anche noi che 'Life is now' come sostiene uno slogan pubblicitario? No, 'life is yesterday, today and tomorrow'. E poi mi chiedo: siamo sicuri che il capitalismo ha voluto dire libertà e non piuttosto una nuova schiavitù, magari più dorata?» Che cosa ti proponi con questo spettacolo? «Vorrei dare un piccolo contributo, uno sguardo di pietas umana a questa grande e tragica vicenda che è stata il comunismo. Che la differenza tra chi è stato comunista e chi è stato nazifascista è che fra i comunisti ci sono stati dei personaggi straordinari, fra i nazifascisti no. Vorrei anche rivolgermi agli 'apostati': che lo dicano che sono stati comunisti, non è una vergogna.

E al Partito Democratico che sta per nascere: se non saprà riscaldare i cuori rischierà di essere la caricatura di un partito moderato, formato dai 'carini' di sinistra. Perché l’utopia non solo è possibile ma necessaria. Si chiedeva Gedali, protagonista dell’Armata a cavallo di Babel’: 'Dov’è la dolce rivoluzione?'. E si rispondeva: 'Vogliamo un’Internazionale di brava gente'. Anche noi ne abbiamo bisogno». Come dirai tutto questo nel tuo spettacolo? «Lee Colbert, la mia orchestra, Maxim Shamkov e io lo diremo cantando, raccontando storie, mentre alle nostre spalle passeranno immagini di archivio, e sulla scena ci saranno disseminati i resti dell’iconografia sovietica di quegli anni a cura di Elisa Savi, che è anche costumista». Una riflessione per chiudere? «Due fra quelle che ho posto all’inizio del mio libro e che mi sembrano particolarmente in sintonia con lo spettacolo. La prima è una storiella ebraica: 'se lo zar avesse potuto vedere i Gulag avrebbe visto coronato il suo sogno: lager pieni di ebrei e comunisti', la seconda la dice Trockij: 'sono certamente le vittime a far progredire l’umanità'. Muoiono le ideologie ma non le utopie, le idee».

 



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