|
© Photo: Maurizio Buscarino |
© Photo: Maurizio Buscarino
Rassegna stampa Galleria fotografica |
Dalla sabbia dal tempo - Note d'autore “Ebraitudine”: parola, musica o silenzio? Prima fai, dopo saprai. È il suggerimento di uno dei Maestri del chassidismo, e dell’intero movimento chassidico uno dei motivi ricorrenti. In qualche modo è stato così anche per noi. Di fronte a un tema tanto preoccupante quanto impreciso - la “cultura ebraica” - la prima considerazione che abbiamo fatto, Moni e io, è stata quella di non saperne poi molto, di non essere degli eruditi in proposito, e ciò malgrado di essere fortemente ebrei. Più che non scandagliare storia e religione, andare a caccia di informazioni e documenti, abbiamo dunque interrogato noi stessi, nel tentativo di individuare quella “ebraitudine” che ci portavamo addosso e della quale avevamo oscura consapevolezza; abbiamo seguito le tracce del nostro essere prima di sapere noi stessi dove volevamo arrivare. Nato e cresciuto così, sulla scìa del soggettivo, lo spettacolo che proponiamo è lontano da ogni intento didascalico-filologico, non vuole essere l’illustrazione di una specifica cultura né chiarire questo o quell’aspetto dell’ebraismo; al contrario, tenta di comunicare direttamente alcune componenti dell’irrequieta anima ebraica lasciando dei margini di impenetrabilità. La paura e l’orgoglio, le mille impossibili patrie, le troppe lingue bastarde. Naturalmente l’ironia, il denaro, la dialettica e la teatralità. Ma anche il senso dell’attesa, l’inquietudine nell’estroversione, la vitalità dietro la malinconia, il sentimento ambivalente nei confronti del proprio destino. L’enigma degli ebrei o piuttosto il segreto dell’ebreo: la diversità genera solitudine e la solitudine una continua interrogazione senza risposta. Presentiamo i nostri “appunti di viaggio” con l’intensità e il coinvolgimento con i quali li abbiamo raccolti, certi che questa sorta di assillo o di flusso dell’anima - l’ebraitudine appunto - sia qualcosa che non si può spiegare ma, nel bene e nel male, vivere soltanto. Così concepito, questo spettacolo non poteva trovare riscontro strutturale in un recital-concerto e nemmeno in un semplice collage di canzoni e brani recitati. Occorreva far convivere musica e parola in una dimensione unitaria, emozionale, all’interno della quale l’una e l’altra potessero veramente pulsare. Il lavoro drammaturgico e scenico si è mosso in questa direzione, sulla spinta, in particolare, di due motivazioni. Da un lato, il peso della musica nell’anima ebraica. Musica che sembra abitarvi da sempre, espressione di stati d’animo altrimenti intraducibili; un ritmo interiore, quasi obbligato, come un respiro dell’anima; melodie come frasi non dette, parole incapaci di farsi parole; armonie elementari, che riposano sulla semplicità formale come nostalgie d’assoluto. Musica del profondo malgrado la veste leggera, linguaggio intrecciato all’essere, di cui una tranquilla esposizione può difficilmente render conto: una musicalità dentro la quale si è cantati più di quanto non si canti. D’altra parte, l’esigenza di scrivere un copione originale e non di allineare citazioni. Un testo multiforme, alchimia di parole sradicate dai loro specifici contesti - storici, narrativi, scientifici, poetici, cabarettistici... - e restituite attraverso il filtro della soggettività, liberamente associate e mescolate a parole proprie. Storielle drammatizzate e non fini a se stesse, racconti rubati alla tradizione orale e fatti spunto d’altre riflessioni, grandi pensatori moderni messi in relazione con profeti biblici. Ed è ancora in questa logica che si inseriscono, tra le parole e il canto, brevi frammenti di compositori assai lontani tra loro: non come brani di colonna sonora ma come richiami, stacchi emotivi. E musica e parole sono consegnate ai musicisti e agli attori che sulla scena, nello spazio del deserto - realtà antica o luogo interiore - sono chiamati non tanto a rappresentare quanto a vivere la zona più indecifrabile dell’ebraismo. Più che non nelle parole dette o cantate, potrebbe essere nei silenzi dell’ebreo, negli spazi bianchi tra una parola e l’altra, nelle pause vuote di suono, che l’ebraitudine risiede. Mara Cantoni |
© Photo: Maurizio Buscarino
Note d'autore Galleria fotografica |
Dalla sabbia dal tempo - Rassegna stampa Versi e canzoni di un viaggio in cerca di sé di Odoardo Bertani Avvenire - 22 maggio 1987 In corso ormai da sette settimane, il festival internazionale di cultura ebraica va sviluppando un programma assai bene studiato, e dunque interessante e armonico, sia che si dedichi allo studio della spiritualità, sia che esplori il mondo dell’espressività poetica e scenica...
|
Dalla sabbia dal tempo - Rassegna stampa
Versi e canzoni di un viaggio in cerca di sé di Odoardo Bertani Avvenire - 22 maggio 1987
In corso ormai da sette settimane, il festival internazionale di cultura ebraica va sviluppando un programma assai bene studiato, e dunque interessante e armonico, sia che si dedichi allo studio della spiritualità, sia che esplori il mondo dell’espressività poetica e scenica. E la risposta è una partecipazione costantemente folta alle varie iniziative, così da dover ritenere che la manifestazione non sarà trascorsa invano. Dobbiamo riferire di uno spettacolo intenso, tenero e accorato, bello come il suo titolo: Dalla sabbia dal Tempo, il sottotitolo lo definisce “breve viaggio nell’ebraitudine”. E’ un collage vivace e mosso, ora malinconico ora allegro, di pensieri, di storielle, di frammenti d’autori grandi e vari; è un testo alchemico che trascrive emozioni accumulate vivendo sempre più consapevolmente una appartenenza; soggettività, non disordine, poiché a rendere unitario il copione sta l’idea di viaggio, ossia di ricerca e memoria di alcuni connotati dell’ebraitudine, di cui emergono il senso della solitudine, l’inquieta domanda su se stessi e il proprio destino, nonché gli aspetti fenomenici costituiti dalla capacità di un’ironia quasi surreale, di scherzare su tutto, e di una gioia vitalistica che si esprime nelle forme sacre della musica e della danza. |