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Questo sarebbe servito a lei

Le mie saranno riflessioni personali che non pretendono di avere alcun fondamento di autorevolezza perché io, nella vita, non mi occupo specificatamente dei temi del convegno. Tuttavia, ogni essere umano sa che gli toccherà irrimediabilmente affrontarli.
Il mio lavoro di ricerca, la mia piccola proposta di teatro, riflette su temi etici e spirituali da un punto di vista totalmente laico. Io, contrariamente a quanto si crede, non sono un credente, sono un agnostico o, piuttosto, un molto dubitante e, in questa ricerca, mi occupo di ebraismo a mio modo, cioè in modo personale ed eterodosso rappresentando solo me stesso, non l’ebraismo, né una parte di esso, né alcuna associazione, comunità o simili (anzi, il cielo mi scampi da un’idea simile!).
Il centro radiante dell’etica ebraica è la vita. La vita è il suo centro pulsante e i 613 complicatissimi precetti, che dovrebbero ispirare il comportamento dell’ebreo in ogni sua circostanza, comandano il rispetto assoluto e prioritario della vita: i precetti sono per la vita e non la vita per i precetti. I nostri maestri dicono: “Vivrai in essi”. Tutti i precetti possono essere trasgrediti per salvare una vita umana se questa vita è in pericolo, con l’eccezione, forse, di “non ucciderai”.
La Torà dice: “Chi salva una vita, salva l’universo intero” e le fa eco il Corano dicendo: “Chi uccide una vita, uccide la vita”. La Torà ebraica afferma che ogni essere umano è il contenitore luminoso, radioso della vita.
La morte, naturalmente, rientrando nel percorso della vita, ne rappresenta un evento e pertanto ne fa parte. Noi, della morte, ce ne dimentichiamo troppo spesso, la rimuoviamo e malgrado i nostri goffi tentativi di allontanarla il più possibile dai nostri pensieri, essa vi rientra di imperio, costituendosi come l’Evento del nostro destino. Un illuminato anatomopatologo inglese sosteneva che noi uomini di oggi siamo in una certa misura ritornati al tempo dei faraoni, con la differenza che i faraoni s’imbalsamavano dopo morti mentre noi tentiamo di imbalsamarci da vivi.
Una civiltà come quella occidentale, che sta influenzando ogni angolo del pianeta con le sue modalità di pensiero, che ha perso se stessa per avvitarsi attorno ad un’insensata produzione di denaro facendone il proprio idolo e la propria ossessione, difficilmente vuole avere una relazione pregnante con la vita e con l’essere umano intesi come valore integro. Preferisce rimuovere ogni pensiero molesto per scansare quella naturale e inevitabile paura nei confronti della morte, del dolore e di quei processi complessi che punteggiano la vita. Invece la nostra vita ha un senso proprio perché esiste la morte, perché è un viaggio limitato nel tempo. Il senso della vita è proprio il viaggio la cui parte più dolorosa, talvolta molto dolorosa, è quella che conduce al degrado fisico, spesso alla malattia. Ma dobbiamo affrontarlo.
L’ebraismo è un pensiero etico che affida al valore dell’essere umano un’importanza straordinaria perché ogni essere umano, nella sua specificità, è unico e quindi santo. La sua santità si fonda su un principio di non strumentalità, di non pervertimento del senso della vita. In questa chiave, ogni momento della vita è importante, compreso il più tragico, quello che precede la morte. La morte merita dunque un’attenzione sacrale.
Io credo, è un’ipotesi che faccio perché naturalmente non esistono certezze in merito, che se abbiamo rispetto per la vita, per l’essere umano nella sua integrità - chiamiamolo di anima e corpo per comodità di termini - si capisce come il problema dell’accompagnamento alla morte dipenda dalla cultura generale sulla vita, di come la vita è considerata.
In un contesto in cui la vita esiste solo se vissuta in maniera edonistica, esteriore, “giovane”, i momenti più drammatici vengono liquidati frettolosamente. La stessa morte è investita della medesima fretta e viene compromesso il processo di elaborazione del lutto. Ho sentito in Brianza un’espressione sulla sepoltura che mi ha molto angosciato. Era una domanda posta ai parenti del caro estinto: “Quand’è che lo avete messo via?”. Se si è capaci di rimuovere la morte così rapidamente, allora è chiaro che il processo verso la morte non è considerato importante, quasi dovesse chiudersi frettolosamente per non dare fastidio a nessuno.
Ricordo anche un episodio di una mia conoscente che, trovandosi nel pieno di una vacanza, era stata informata che il padre era mancato dopo qualche giorno di agonia. Non era tornata a casa per il funerale sostenendo: “A che cosa serve?”. Non aveva capito che questo sarebbe servito a lei.
Noi siamo in genere portati a considerare che la persona entrata in uno stato di premorienza, o di lunga agonia, viva una condizione specifica che riguarda soltanto lui. Invece riguarda noi, ci riguarda da vicino, perché siamo degli esseri umani come lui e lui lo è come noi.
Se diamo alla vita e all’essere umano un valore supremo, dobbiamo saper essere all’altezza di questa straordinaria condizione che è la vita umana in ogni momento della relazione e capire che tanto più è alta la qualità del rapporto che noi intratteniamo con la vita e con la morte, tanto più noi e la società in cui viviamo diventano alti.  Forse sarà capitato di notare, in televisione, in occasione degli spaventosi attentati in Israele, che insieme alle ambulanze che soccorrono i feriti e raccolgono pietosamente i corpi inanimati, compaiono degli ebrei ortodossi che, con guanti e pinzette, cercano i più piccoli frammenti di carne per ricomporre i corpi nella loro integrità fisica. Non si tratta di una macabra questione feticistica. E’ un modo di esprimere il rispetto sacrale per l’integrità della vita.
Non ci sono regole oggettive per stabilire i modi con cui affrontare i momenti difficili, dolorosi, ma al tempo stesso fondamentali e strategici della vita e della morte. Non possiamo affrontare la questione tecnicamente e inquadrarla dentro degli schemi, perché interessa un sistema intero di relazioni e ciascuna si costruisce su avvenimenti, sentimenti, emozioni.
Ciò che è importante, è che la relazione sia fondata sul rispetto della vita come splendore dell’esistenza.
Se la vita che viviamo, se la vita che proponiamo ai nostri figli, è fatta di vacuità, di consumo, di vendita di sé, d’incapacità di innalzarla e di orientarla verso condizioni più giuste, più belle, più profonde, più libere, allora è chiaro che l’accompagnamento alla morte subirà le conseguenze di questa scelta, di questa impostazione, di questa griglia esistenziale.
La vita umana non ha valore se collocata fuori da una prospettiva etica, sociale e umanistica, una condizione specifica fondata sul pensiero, sull’emozione e sul sapere: solo questa scelta può fare di noi delle persone migliori.

Moni Ovadia

 

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