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La bambola Toràh

Introduzione al libro “Azarel” di Karoly Pap


Un singolare dettaglio collega Gyuri, il fanciullo protagonista del romanzo semiautobiografico Azarel di Karoly Papp, a Franz Kafka bambino come egli stesso si racconta nella lettera al padre. Nelle   sinagoghe, entrambe appartenenti al rito riformato, che  i due ragazzini rispettivamente frequentano, il piccolo Franz, portato dal Padre bottegaio che ne è congregante routinario e Gyuri perchè il padre vi esercita la professione di rabbino, vedono nel sacro rotolo della Scrittura una bambola. Kafka, rammemorando il sentimento di noia e di non appartenenza che lo prendeva nel tempo della sua infanzia assistendo al rito borghese di quel luogo di culto formale, definisce il sacro rotolo spogliato del suo senso profondo come una bambola senza testa con graffiante intuizione ironica. Gyuri affascinato dal prezioso rivestimento splendidamente ricamato del rotolo lo scambia per l’abito che nasconde una magnifica bambola e solo quando la pergamena con le sante parole vergate dallo scriba si rivela in tutta la sua evidenza si convince che quella bambola è davvero la Toràh. In questa percezione totemica  infantile della massima espressione di santità dell’ebraismo si riverbera un aspetto centrale della crisi dell’identità ebraica nella sua uscita dall’intimità “retriva” ma sublime dei ghetti e degli shtetlakh del ostjudentum. L’evoluzione dell’ebraismo verso la modernità è anche decadimento spirituale che ha la sua prima ed evidente manifestazione nei modesti aspetti formali della propria assimilazione borghese al mondo cristiano circostante, come narra Joseph Roth in Juden auf Wanderschaft e come magistralmente commenta Claudio Magris nel suo indimenticabile saggio sul grande scrittore ebreo austriaco Lontano da dove. In questo senso il genio di Kafka e il grande talento di Karoly Papp inghiottito crudelmente nel “forno dell’esilio” - Papp morirà assassinato nel lager di Bergen-Belsen nel 1945 - si collocano nella stessa temperie: lo spaesamento irredimibile di ebrei sradicati dalla fonte originaria a causa di una spiritualità che ha rinunciato ad ogni rischio e di una famiglia che non è più centro radiante di una vera fede, ma ambito di relazioni convenzionali . Paradossalmente questi ebrei attraverso un  magistero letterario inaugurano una via inedita ed ineffabile al sentirsi ebreo fuori da ogni, anche più radicata convenzione.

Azarel racconta la furiosa ma impossibile ribellione di Gyuri, bimbo ebreo ungherese, ad un ebraismo di norme e di forme senza amore e spogliato  della dimensione fantastica e stupefacente che rivela un divino panteistico nella vita di cose e oggetti. Gyuri subisce un doppio rito di passaggio che gli inoculerà nell’ anima una contraddizione irresolubile. Il primo di questi riti avviene perché il nonno Geremia, ebreo khassidico, asceta mistico estremo,  pretende che Gyuri venga consegnato alla sua educazione, l’unica autenticamente fedele alla Torah, come sorta di riscatto mosaico per essere risarcito della perdita dei figli secolarizzati ed in particolare del papà di Gyuri che si è concesso all’abominio di essere ministro dell’ebraismo riformato, ai suoi occhi ripugnante come un’apostasia. I genitori di Gyuri non riescono a resistere al terribile potere del vecchio Geremia e glielo affidano perché lo educhi secondo i suoi principi . Il secondo doloroso rito di passaggio Gyuri lo conosce alla morte del nonno ritornando alla casa paterna. Il “figlio del riscatto” trascorre i suoi primissimi anni in una tenda collocata  fra la sinagoga ed il cimitero che il nonno ha scelto come dimora ascetica per vivere più intensamente secondo la Torah, fra preghiere, digiuni ed iniziazione al fantastico di una spiritualità mistica. Alla morte del nonno Gyuri si ritrova di colpo nella casa dove è nato in una famiglia alla quale è totalmente estraneo, con un padre preoccupato soprattutto del proprio buon nome presso la piccola comunità ebraica dagli angusti orizzonti di cui è guida spirituale, una madre troppo presa da se stessa e dai propri mali per compiere il primo dovere di una mamma ebrea, amare senza riserve i propri figli, un fratello maggiore secchione ed indifferente adorato dai genitori ed una sorella vanitosa ed invidiosa. La mancanza del microcosmo duro, ma intenso e teso al sublime in cui è cresciuto che lo ha educato ad una radicalità senza compromessi e il carattere anafettivo e filisteo del nuovo contesto in cui precipita di colpo, provocano nella mente fertile di Gyuri una profonda lacerazione  che lo conduce ad una ribellione forsennata a tutta la famiglia ma soprattutto al Padre. Questi reagisce con una crescente violenza, ma non riesce  a piegare il figlio e alla fine dello scontro sentendosi furioso ed impotente  decide di  cacciarlo di casa. Gyuri si fa orgogliosamente mendicante e, sempre più in preda ad un delirio di rivolta, come  un piccolo giobbe a cui per puro capriccio sia stato sotratto lo statuto della promessa divina a cui ogni ebreo ha diritto, arriverà a sfidare i decreti del Santo Benedetto e persino la Sua stessa esistenza. Alla fine di questo viaggio iperbolico nella ribellione assoluta, Gyuri crollerà e verrà accolto nuovamente nella famiglia come se fosse stato preda di una breve e violenta affezione morbosa e il povero piccolo malato, ancorchè non domo, accetterà “vigliaccamente” di ranicchiarsi nel tepore ipocrita di un affettività conformista e di facciata. Karoly Papp ci congeda con questo esito rinunciatario, apparentemente compromissorio. Apparentemente.

Moni Ovadia

 

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