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Le spezie della terra - Per te sarò un ebreo

Leonard Cohen per molti anni l’ho ascoltato con la convinzione ferma e disattenta di ascoltare qualcuno che va ascoltato per la bellezza delle sue liriche, per l’inimitabile voce, perché è di quelli che hanno graffiato le anime della tua generazione, perché è Leonard Cohen insomma. Poi, nella maturità di cinquant’anni ho finito per sbatterci il muso contro per via di una sua canzone. La canzone è “Take this Walz”. Mi ritrovai inopinatamente e sfacciatamente ad interpretarla – nell’originale inglese – in uno spettacolo dal titolo ambizioso di “Ballata di fine millennio”, un viaggio fra le rovine delle utopie del secolo breve e feroce, epilogo del secondo millennio dell’era volgare. Lo spettacolo, scritto e diretto a quattro mani con Mara Cantoni, si concludeva con il sentimento di perdita delle grandi narrazioni e la conseguente deriva di senso. Take this walz ci parve una conclusione perfetta. Non essendomi mai sognato di interpretare le canzoni di Leonard Cohen come scelta artistica, ma essendomi limitato ad interpretare una sola delle sue creazioni per ragioni “funzionali”, scelsi di aggredire quel brano con un’interpretazione catarrosa ed eterodossa che però a suo modo rivelò una certa efficacia. Lo spettacolo girò molto a lungo e quella canzone divenne per me un tormentone, mi si conficco negli interstizi dei risuonatori vocali e dell’interiorità al punto che la ripresi per l’epilogo di un altro spettacolo, questa volta uno spettacolo di argomento strettamente ebraico. Take this walz non c’entra nulla con l’ebraismo, celebra i flussi, le risacche di un amore senza fine fra i fumi di memorie mitteleuropee ispirate da versi di Garcia Lorca, eppure ogni volta che l’ho cantata la mia erratica anima ebraica si è nutrita di nuovi spaesamenti. Non ho mai voluto più che tanto capire perché. Del resto non ce n’era bisogno. Un perché tuttavia ha preso corpo quando Giancarlo De Cataldo mi ha chiesto di presentare volume di poesie di Cohen “Spezie della terra”. Il perché non ha nulla a che vedere con lo specifico della scrittura poetica, non ho nessun titolo per proporre riflessioni di sorta su un materia tanto sensibile quanto delicata, il perché attiene ad una delle tracce di questa raccolta: i frammenti rapsodici di un’inquietudine ebraica. Sia chiaro questa raccolta di versi non è specificamente di temi ebraici, gli sguardi sono molteplici e aperti del resto parliamo di un uomo e un poeta che ha avuto relazioni profonde e prolungate con altre culture e spritualità come quella buddista per fare un esempio, ma anche con la carnalità della vita e dell’amore. Eppure, in “Spezie della Terra” Cohen mi pare voler manifestare una personale quanto irriducibile e pulsionale tensione verso il suo essere ebreo. Non certo in un un’adesione identitaria perentoria, né tanto meno in un riconoscimento nazionale quanto piuttosto attraverso rigurgiti di memoria, iridescenze bibliche, emersione di figure ebraiche sia della scrittura sacra e khassidica che di quella della propria cerchia familiare, tracciate con appassionata ed ironica maestria. Struggente quella dell’amico Abraham Klein radioso salmista emulo inconcludente del re Davide:”

 “Accanto al suo strumento, stanco, / Il salmista si concesse il riposo. / Il Sabato era passato/ E del Sabato la Sposa. /La tavola era consunta, /Le candele fredde e annerite. / Le pagnotte che cantava così soavemente, /Quelle pagnotte erano ammuffite. / Tremando nella notte/ Si voltò verso il suo liuto. /Pensava di non conoscere musica/ Che rendesse il mattino compiuto. / Abbandonata la Legge, /E anche il Re abbandonato./ In trance prese lo strumento, /A cantare era abituato. /Cantò e non cambiò niente Anche se molti udirono i canti. /Ma subito si fece bello il suo volto /E subito le braccia possenti.//”.

” Per te/ sarò un ebreo del ghetto/ e ballerò /e mi infilerò calze bianche
sulle gambe deformi /e avvelenerò pozzi /in tutta la città

Per te/ sarò un ebreo apostata/ e dirò al prete spagnolo/ del giuramento di sangue/
del Talmud /e dove sono nascoste/ le ossa del bambino/

Per te /sarò un ebreo banchiere/ e manderò in rovina
un antico e borioso re cacciatore/ e metterò fine alla sua stirpe/

Per te/ sarò un ebreo di Broadway /e piangerò nei teatri/
invocando mia madre /e venderò beni d’occasione/ sottobanco/

Per te/ sarò un ebreo medico/ e cercherò /
in tutti i cassonetti/prepuzi/ da ricucire/

Per te/ sarò un ebreo di Dachau /e giacerò nella calce /con gambe deformi
e un dolore così gonfio/ che nessuna mente potrà comprendere// “.

Leonard Cohen è uno di quegli artisti ed intellettuali ebrei che riesce ancora a mantenere vivo lo spaesamento e la contraddizione che hanno caratterizzato il sentire ebraico nel corso della bimillenaria diaspora, questa capacità rischiosa è sempre più rara e malvista nelle mainstream dell’ebraismo contemporaneo molto tentato dalla lusinga nazionalista:”

Chi mantiene le promesse se non in affari? Non ci era con-sentito di possedere terra in Russia. Ma chi vuole possederne, lì o altrove? Io fisso stupefatto gli alberi. Alberi di Montreal, alberi di New York, alberi di Kovno. Non ne ho mai voluto possedere uno. Rido in faccia ai cultori del mercato immobiliare. [...] Soldati a ranghi stretti. Paracadutisti su una strada bianca di Tel Aviv. Chi osa disprezzare una risposta ai forni? Una qualunque. Non mi piaceva vedere i ragazzi denutriti nel ghetto polacco. Le schiene curve non erano belle. Perdonatemi, non mi dà alcun piacere vederli in uniforme. Non mi emoziono alla vista dei battaglioni ebrei. Ma c’è una sola scelta tra i ghetti e i battaglioni, tra le fruste e la più frusta arroganza patriottica. [...] ”

E’ in questo sguardo dell’interrogazione che mi sento risuonare con Leonard Cohen, qui si rivelano a mio parere echi della più vertiginosa eredità khassidica che lo hanno direttamente o indirettamente nutrito e che declinandosi con l’esperienza buddista lo hanno portato ai suoi celebri aforismi: “ in Occidente non esiste la cultura del perdente, solo l’esaltazione del vincitore. Ma è nella sconfitta che si manifesta la gloria dell’uomo”. Il khassidismo glorificava l’uomo fragile, nella luminosa precarietà dell’esilio “nulla è più integro di un cuore spezzato” sosteneva un grande rabbi e Cohen gli fa eco:” “ c’è una crepa in ogni cosa, è da lì che entra la luce.” I maestri khassidici insegnano che la redenzione si genera nell’inavvertito, che la comprensione di ciò che ci è oscuro si accende dove si genera la lingua degli spazi bianchi che si apre la strada fra le false certezze di una lingua dei grafemi neri che nella nostra protervia riteniamo di possedere . La lingua che porta alla libertà è la lingua di un leader balbuziente, e la parola del messianesimo è la parola di un profeta guastafeste:”

Tra le montagne di spezie/ le città innalzano cupole di perla e campanili di filigrana./ Mai Gerusalemme è stata tanto bella. /Nel tempio adorno di statue quanti pellegrini,/ persi nelle misure di lira e tamburello, /si sono inginocchiati alla magnificenza del rituale?/
Educate alla grazia le figlie di Sion si muovevano, / non meno splendide delle statue d’oro,/
l’audacia degli ornamenti ai piedi profumati. /Il governo lo si espletava nei palazzi./ I giudici, che facevano fortuna nella legge, / rilassati e cosmopoliti, lodavano la ragione./
Il commercio come un vigoroso giardino incolto /prosperava lungo le strade./ Le monete luccicavano, lo stemma sulle monete era esatto, / quelle nuove sembravano quasi bagnate./

Perché Isaia s’infuriava e gridava: /Gerusalemme è in rovina,/ le vostre città vengono divorate dal fuoco? /

Sulle colline profumate di Gilboa / furono mai i pastori più calmi, /le pecore più grasse, la lana bianca più bianca?/
C’erano alberi di fico, cedri, frutteti /dove gli uomini lavoravano nel profumo tutto il giorno./
Nuove miniere fresche come melograne. /I ladri erano scomparsi dalle vie, le strade erano rette. /C’erano anni di grano contro la carestia. / Nemici? Chi ha mai sentito di uno stato giusto/ che non ha nemici, / ma i giovani erano forti, gli arcieri astuti, /le loro frecce precise./

Perché allora Isaia, questo folle, /che odorava persino un po’ di selvatico, / perché urlava: /Il vostro paese è desolato?[...]

Ora immerso in amore indicibile/ Isaia vaga, scelto, incespicando sulle mura adorne di statue che consumano/ tutta la loro età nel suo abbraccio e si fanno polvere/
al suo passare. Barcolla roteando su se stesso oltre /la pioggia di polvere di campanili e cupole,/
cancellando il rituale: il Sacro Nome, pronunciato a metà,/ si perde sulla lingua del cantore; le loro pagine si svuotano,/ le congregazioni sbattono le palpebre, stravolte e mute./ Nel suo girovagare / i pesanti alberi sotto cui dorme/ maturano in cenere e si sfaldano:/ interi frutteti si uniscono al vento/ come stormi di corvi che si levano in volo. / Le rocce ridivengono acqua, l’acqua fogna./ E mentre Isaia dolcemente canta a bocca chiusa/ per far sì che il paese colpevole non sia condannato, /tutti gli uomini in verità desolati e soli,/ come se assistessero a un miracolo, /contemplano nella bellezza i volti gli uni degli altri.//”

L’ottica ebraica e solo una delle possibili chiavi di accesso alla poesia di Leoanard Cohen, non la principale e neppure la più importante, ma non potevo esimermi dal segnalarla con capziosa enfasi. Quale comunque sia la griglia di approccio che il lettore sceglierà per mettersi in sintonia con “Spezie della Terra” suggerisco di suggellare l’incontro con i gagliardi versi della “canzone del cornuto” dove il poeta si consegna ad un ironia autodelatoria rivelando i prezzi meno nobili che si devono tributare all’onere di un nome celebre come il suo.

Moni Ovadia
   
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