Il lavoro, la vita
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La dolorosa controversia dell'Ilva di Taranto, al di là delle sue specificità, ci mette di fronte ad una delle questioni più gravi del nostro tempo: quale debba essere la relazione che intercorre fra lavoro e vita, in generale e in quali termini di priorità debbano essere considerati il diritto al lavoro e il diritto alla salute. A chiunque venisse proposta a bruciapelo l'alternativa retorica: "Si lavora per vivere o si vive per lavorare?", di primo acchito, senza rifletterci, risponderebbe che si lavora per vivere. Ma è davvero così che vanno le cose? Per una minoranza di cittadini delle nostre società avanzate è probabilmente così, ma oggi per la gran parte delle persone che vivono solo del loro lavoro, di qualsivoglia natura sia questo lavoro, la situazione è diversa. Si vive per lavorare, perché il lavoro ha da tempo cessato di essere proposto come un diritto ed è sempre più subordinato alle ragioni del profitto, della speculazione finanziaria e soprattutto del consumo e alle sue pressanti sollecitazioni. Se vivere la vita è stabilire relazioni umane individuali e sociali, creare una famiglia, partecipare all'edificazione di una società giusta fondata su valori universali quali la solidarietà fra gli uomini, l'accoglienza dell'altro, promuovere l'educazione e la formazione culturale dei cittadini e in particolare dei giovani, tutto ciò è sempre più rimosso dall'orizzonte del lavoro. Il lavoro diventa sempre più una concessione subordinata ad un ricatto: più fatica, minor retribuzione, rinuncia ai diritti e alla sicurezza, crescita esponenziale dei processi di alienazione. Ora, in questo contesto, quale valore può essere attribuito alla salute di chi lavora? Evidentemente un valore molto scarso o nullo. Questa tragica verità è quella che rivela, per esempio, tutta la vicenda dell'amianto. I noti effetti tossici ed esiziali dell'asbesto - clinicamente noti da lunghissimo tempo - sono stati deliberatamente ignorati dalle proprietà e dalle dirigenze di grandi gruppi industriali. In nome del cosiddetto sviluppo, imprenditori e dirigenti hanno taciuto i pericoli per la salute dell'uomo e hanno condannato ad un'atroce morte ad orologeria migliaia e migliaia di operai e lavoratori colpevoli solo di voler provvedere al sostentamento delle proprie famiglie. I numeri dell'ecatombe sono e saranno quelli di uno sterminio di massa. Purtroppo, allora, in nome del diritto al lavoro, anche esponenti politici e sindacali delle organizzazioni dei lavoratori criminalizzarono coloro che denunciavano la tossicità mortale dell'amianto. Oggi, con la consapevolezza di cui disponiamo, sarebbe imperdonabile difendere uno sviluppo che sacrifichi il diritto alla salute.

 

Moni Ovadia - L'Unità -  04/08/2012

 

 

 

 

   
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