Shylock-note © Photo: Lia Pasqualino
 

Shylock - Note d'autore

Shylock, istruzioni per l'uso
di Roberto Andò e Moni Ovadia

 

"A questo chiamo testimoni i buffoni del Tempo,
coloro che muoiono per il bene dopo aver vissuto per il crimine."

 

William Shakespeare
Sonnets, 124

 

Il Mercante di Venezia è uno dei testi più densi e affascinanti di William Shakespeare, dove convivono genialmente (in un sottile variare di toni dal tragico al comico) temi diversi e cruciali come quello della sacralizzazione del denaro, cioè della sua degenerazione e reificazione nei sentimenti attraverso il subdolo infiltrarsi nel privato (che accomuna tutti i personaggi principali), o quello dell'omosessualità, legato al personaggio di Antonio, e al suo spleen speciale, o ancora quello della legge, ossia della giustizia da applicare secondo i casi, ma sempre piegata al volere del denaro, a convalida di una norma e di una ratio indissolubilmente legate al potere, di cui la legge tende a essere insieme recita e rito. Temi che appartengono ad ogni tempo, e che in ogni tempo risuonano in modo particolare. Ma il fuoco principale del play, ciò che ne costituisce lo charme inconfondibile, emana dal suo personaggio più sfuggente e insieme più connotato, Shylock, l'Ebreo. Sfuggente e connotato, questo doppio passo, da ossimoro, pesa infatti su Shylock e sulla tradizione che lo ha reso, nel tempo della sua lunga e trionfale apparizione sui palcoscenici del mondo, contemporaneamente un marchio d'infamia e una vittima espiatoria, una modalità proverbiale della cattiveria, e l'alta testimonianza dell'autorevolezza dell'umano.

Il Mercante di Venezia in prova ha inizio in un luogo che non è identificabile, potrebbe essere un mattatoio o un teatro, uno di quei luoghi che la contemporaneità ha sublimato e convertito, inscenando il Bene lì dove era di casa il Male, un luogo dove un regista dovrebbe provare il suo Mercante di Venezia, finanziato da un mercante odierno, delle cui immense fortune nessuno sa rintracciare l'origine, all'infuori del sospetto che le vuole certamente generate dal crimine. L'ossessione del regista e quella del mercante sono speculari, il primo vorrebbe restituire a Shylock la libbra di carne che gli è stata negata cinquecento anni fa, l'altro vorrebbe acquisire un altro pezzo speciale nella sua collezione di libbre, catturando il cuore di un artista. Uno vorrebbe profanare il confine tra l'Arte e la Vita, l'altro vorrebbe sondare un'ultima chance per il teatro di continuare ad essere, al di là dei suoi trucchi e delle sue miserie, l'irriducibile talismano dell'umano. In un deliquio febbrile, che via via prende la forma di un puzzle, le scene immaginate dal regista si alternano a divagazioni sulla verità e sulla menzogna, mentre uno Shylock agonizzante, sorvegliato da un Cardinale, da un oscuro prelato e da un'infermiera, continua a balbettare, come un ritornello ossessivo, il suo monologo più celebre: Se ci pungete, non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo?

È una sarabanda sul senso (o non senso) del teatro? Un pastiche? O, piuttosto, un paesaggio dove, in controluce, è possibile riconoscere il rischio del teatro oggi, ciò che lo pone a un bivio, sparire nell'inessenziale marginalità che gli è stata affidata o riprendere ad essere quello che una volta era, un grande paese senza nome che appartiene a tutti, un paese dell'anima, dove ciò che viene di continuo evocato nel nome dell'umano risulterebbe vago e approssimativo se non venisse ogni volta scandagliato l'eterno gioco del prestito e del debito, quella speciale e riuscita acrobazia dell'uomo di farsi mercante di ciò che non è in vendita, ieri come oggi, nel tempo orribile che di volta in volta ci tocca in sorte, ieri nel tempo delle Venezie o delle Buchenwald, oggi in un tempo chiuso al respiro dell'altro, un tempo che sembrerebbe avere definitivamente escluso la vastità del vivere dal suo orizzonte, e con essa, la pietà e il dolore degli altri.

È una commedia o una tragedia?

   
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