Le Supplici - Rassegna stampa

 

A Siracusa Le Supplici di Modi Ovadia e la forza della parola

di Davide Bocchieri

L'agnostico Moni Ovadia attualizza quel messaggio di accoglienza incondizionata, rappresentandolo come qualità morale di un popolo liberato dal pregiudizio e dalla paura

"C'è bisogno di un pensiero profondo che dia salvezza". La forza della parola inserita in una magistrale cornice musicale restituisce al teatro greco la dimensione schiettamente pedagogica in una prospettiva inevitabilmente etica.

La scelta di Moni Ovadia, che probabilmente poco piacerà a chi preferisce la dimensione esclusivamente estetica della rappresentazione classica, restituisce al testo delle Supplici la funzione educativa che anima l'opera di Eschilo. L'agnostico Moni Ovadia attualizza quel messaggio di accoglienza incondizionata, e la scelta del popolo guidato da Pelasgo diviene un valore in sé, quel pensiero profondo che dà salvezza. Agli dei che impongono il sacro dovere dell'accoglienza delle supplici, Pelasgo – Ovadia sostituisce l'opzione etica che dà senso e forma all'azione di un intero popolo. Una scenografia quasi accennata ma di grande impatto: solo enormi mezzibusti africani innalzati su alti pali dominano lo scenario che racconta una storia che si ripete. Quella delle Danaidi o quella dei migranti africani che fuggono da guerre e fame. Perché la storia, avverte nell'incipit il cantastorie (strepitosa interpretazione quella di Mario Incudine), ritorna.

Ovadia riesce a recuperare anche un altro aspetto del teatro greco, che è quello della riflessione. Il momento della rappresentazione è solo un input. Spinge poi a un lavoro quasi esegetico lo spettatore che riesce in un primo momento a catturare nell'immediatezza del sentimento. Ogni immagine, ogni parola sono segni da decifrare. Il messaggio che potrebbe apparire prepotentemente imposto allo spettatore risulta invece funzionale all'aspetto formativo che – va ribadito – si nutre di una profonda dimensione morale in un'ottica di crescita collettiva. L'accoglienza non è tema semplice e senza conseguenze, e per questo presuppone un lavoro d'introspezione. Pelasgo – Ovadia insiste perché sia il popolo a decidere.

E non solo perché ne venga fuori una scelta democratica. E' fondamentale che vi sia un assenso intimo, perché questa scelta restituisca l'umanità in chi la compie restaurando la giustizia. Ovadia sceglie la lingua siciliana, immediata ed efficacissima. Alcune parti in greco moderno, soprattutto nel breve ma incisivo faccia a faccia con l'araldo egizio. Parlano due lingue diverse, perché diversi sono i loro valori. "Cca – poi prosegue Pelasgo – si parla la lingua della libbertati". Un testo pensato insieme a Mario Incudine e Pippo Kaballà. Nella rappresentazione, le musiche accompagnano il dramma e la speranza, in alcuni casi si sostituiscono alle stesse parole. La sgraziata invocazione, "Zeus, Zeus", cantata dalle figlie di Danao, lontana dalla melodiosità classica, restituisce l'enormità della tragedia dei migranti, mentre l'ode finale esalta le qualità morali di un popolo che, liberato dal pregiudizio e dalla paura, rispetta la sacralità dell'accoglienza.

E non a caso ospiti d'eccezione sono stati proprio un gruppo di migranti, accolti in alcune strutture nel Siracusano. Amici sceglie di chiamarli il cantastorie, e le parole hanno un senso e un valore. Sul palco oltre a Ovadia che ha interpretato Pelasgo, e Incudine che veste i panni di un cantastorie, anche Angelo Tosto (Danao), Donatella Finocchiaro (prima corifea), Marco Guerzoni (Araldo degli egizi), le corifee Rita Abela, Sara Aprile, Giada Lo Russo, Elena Polic Greco e Alessandra Salamida, Faisal Taher (voce egizia), i musicisti Antonio Vasta, Antonio Putzu, Manfredi Tumminello e Giorgio Rizzo e gli allievi dell'Accademia d'arte del dramma antico "Giusto Monaco" che hanno interpretato il coro della Danaidi, le donne e gli uomini del popolo e gli armigeri egizi.

In apertura della prima, il sindaco di Siracusa, Giancarlo Garozzo, che è anche presidente dell'Inda, ha annunciato gli spettacoli del prossimo anno. Tutti e tre su figure femminili: Elettra di Sofocle, Alcesti di Euripide e Fedra di Seneca.
   

 
 
 

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Parlano in siciliano "Le supplici" firmate a Siracusa da Ovadia

SIRACUSA. «Non faccio a tempo a creare qualcosa che i classici mi hanno già citato»: Moni Ovadia ricorda questa frase paradossale di Dario Fo, per affermare la modernità de "Le supplici", la tragedia...

SIRACUSA. «Non faccio a tempo a creare qualcosa che i classici mi hanno già citato»: Moni Ovadia ricorda questa frase paradossale di Dario Fo, per affermare la modernità de "Le supplici", la tragedia che ha appena inaugurato il cinquantunesimo ciclo di spettacoli classici di Siracusa. Ovadia è del resto l'uomo giusto per dimostrare questo paradosso: è attore e regista, scrittore e musicista, e sopratutto poliglotta, cultore di lingue moderne e antiche, a cominciare dal bulgaro (la sua lingua madre), dal greco antico, e ovviamente l'italiano.

A lui è stato dato incarico di mettere in scena questa opera di antica bellezza, e di ambiguo significato, perfettamente integrata nel meraviglioso scenario di pietra del teatro greco. E lui, coinvolgendo il musicista e attore Mario Incudine, ne ha fatto uno spettacolo grandioso, con un centinaio di attori e corifei,

moltissima musica degna di un grande cantastorie amplificato, e ancora danze tribali, citazioni classiche e fascinosi travisamenti del suo testo originale datato 463 a.C. circa.

Ma ciò che più ha sorpreso e spinto a fragorosi applausi è la versione in siciliano del testo classico.
   

 
 
 

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"Le Supplici" di Ovadia entrano nel grande repertorio del teatro europeo

18 maggio 2015 Le Supplici

UN ESPERIMENTO RIUSCITO

di Gianni Bonina

Un'ora prima del debutto Moni Ovadia ha detto che non avrebbe potuto immaginare diversamente Le Supplici: "E' il mio spettacolo. Un altro non lo so fare". Consapevole dei rischi che il suo temerario adattamento correva per eccesso di novità (la commistione di dialetto siciliano e greco moderno, il tono di cantata e di ballata dato a tutta la rappresentazione, il tradimento pressoché totale della traduzione di Paduano nonché del testo di Eschilo), il regista di ascendenza ebraica ha nondimeno creduto nella sua operazione fortemente innovativa, quasi dirompente, e il pubblico gli ha dato ragione.

Le sue Supplici saranno ricordate come una tappa fondamentale nel processo di rivisitazione del teatro antico in direzione dell'adeguamento allo spirito moderno e alla cultura del nostro tempo di cui gli Spettacoli classici di Siracusa costituiscono non da oggi un fiorente laboratorio di ricerca e di sperimentazione. Il risultato è andato ben al di là delle migliori supposizioni e ha allineato Ovadia ai grandi novatori del teatro europeo, da Grotowski a Mejerchol'd, da Beck a Artaud, quel "teatro di rivolta" al quale si pensava che non potesse entrare anche il teatro greco antico e che invece abbiamo rivisto rinascere sotto il Temenite di Siracusa.

La rivolta guidata da Ovadia ha riguardato innanzitutto gli schemi mentali consolidati circa l'intangibilità del testo e della struttura della tragedia: il primo è stato trasposto in un cuntu siciliano, la seconda è diventata un musical contemporaneo dentro il quale per magia è rimasta tuttavia integra, anzi esaltandosi, l'intonazione classica, evocata nei ritmi orientali di tipo giambico, negli accenti strumentistici, nella stessa ridondanza dei cori che anziché farsi rutilante ripetitività hanno assunto l'accordo di una percussività non solo capace di risvegliare ancestrali suggestioni mistiche e tribali, proprie di un mondo primitivo ed extraeuropeo, ma anche di cogliere il senso di orazione civile che la perorazione collettiva delle Danaidi, insistente e accanita quanto i successivi atti di ringraziamento, intendevano rappresentare.

La varietà dei motivi musicali, tutti scanditi su un modello vagamente ispirato alle antiche cantate contadine siciliane, epperò commisti a significativi apporti mediorientali e africani; il febbrile andamento delle coreografie, cadenzate sul frenetico di indistinte e arcaiche ballate impetrative senza luogo e senza tempo; il senso di circolarità e di pienezza dei movimenti, modulati secondo velocità diverse, dalla fissità delle guardie argive alla lentezza spasmodica della loro apparizione fino alla concitazione delle Danaidi; l'argentino intervento del cantastorie padrone di una voce tonante che da sola bastava a dominare la scena: sono stati tutti questi elementi insieme a instillare una sensazione di straniamento, di perdita della concezione del tempo e delle coordinate di spazio e di presenza, facendo di un musical sospeso tra antico e moderno un mezzo di fascinazione tenuto compatto dalla parola e dalla musica: parola molte volte incomprensibile ma fortemente musicale e musica altre volte sufficiente a pronunciare sensi compiuti.

L'acceso diverbio tra Pelasgo e l'Araldo degli Egizi (un immedesimato Marco Guerzoni), giocato sul ritmo di una serrata sticomitia nel confronto di siciliano e greco moderno, è stato il punto di fusione in cui mondi remoti, lingue di epoche distanti, civiltà contrapposte si sono incrociati e compresi. Forse è stato questo il momento di maggiore emozione e di più vibrante attesa: momento che a molti spettatori non ha potuto non ricordare, nella pretesa degli Egizi di avere le Danaidi e nel fermo rifiuto del re degli Argivi, una recente pagina di storia italiana, più precisamente siciliana: il tentativo nel 1985 dei reparti speciali americani di avere a Sigonella i sequestratori dell'Achille Lauro, tentativo neutralizzato dalla fermezza dei carabinieri in nome di un dovere di protezione nei confronti di stranieri pur'anche rei di crimini di sangue sentito al pari di Pelasgo come obbligo inderogabile di una sana democrazia.

Ovadia, interprete di Pelasgo, ha saputo rendere questo sentimento solidaristico sotteso alla migliore politica internazionale di ogni tempo con la forza sorgiva che gli viene dalla sua lunga militanza umanitaria. La sua voce potente e declamante si è levata nell'affermazione di un principio la difesa del quale deve valere anche una guerra. Gli ha fatto da contraggenio il timbro vocale acuto e sostenuto del cantastorie, un Mario Incudine al quale si deve gran parte dell'adattamento anche musicale: il suo ruolo, preso di peso dalla tradizione siciliana, di nuncius che anticipa e spiega i fatti in una sorta di parabasi trasposta dalla commedia attica ha significato il fatto nuovo e trasgressivo valso a sicilianizzare la tragedia laddove soprattutto il cantastorie si è rivelato nei panni di Eschilo dicendosi "poeta siciliano".

Il suo dialetto parlato, risonante e squillante, non è stato da meno di quello selvaggio e rurale di Donatella Finocchiaro, una corifea piena di personalità e ricca di accoramento e spavento, che si è fatta notare per la determinazione della sua presenza e una spiccata versatilità canora, recitativa e coreografica. Sia pure molto faticoso per gli incessanti movimenti e l'accrescimento dei canti, il ruolo delle Danaidi è stato ricoperto con levità dalle allieve della scuola dell'Inda che hanno dato agli ondivaghi atteggiamenti delle profughe egiziane una coscienza di erinni d'Oltremare, ora supplichevoli e ora temibili e invasate. Hanno dato sonorità e fiato, con vocalizzi, strofe anapestiche, sibili gutturali e rumori sordi, alla protagonista assoluta della tragedia, cioè la musica: martellante, palpitante, sferzante, come proveniente da un fondo di suoni perduti capace di suscitare immagini e forse anche sogni. L'insieme di tamburi, clarino, chitarra e fisarmonica ha composto un'armonica di suoni mediterranei miscelati e variegati in uno spartito originale che sia pure inaudito suggerisce melodie già sentite e ripescate dalla memoria comune. In omaggio a Siracusa e al suo teatro greco, Ovadia ha portato Le Supplici in Sicilia e la Sicilia nel repertorio del teatro europeo.
   

 
 
 

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SIRACUSA

Le Supplici di Eschilo parlano siciliano

Ovadia e Incudine sfidano i "puristi"

di Giuseppe Attardi

Apr 26, 2015

SIRACUSA. "Zeus, posa i to' occhi 'ncapu sta genti, ca supplicanti dumanna aiutu ppi non spusari l'omu parenti. Parti emigranti ppi n'autru statu... ». I versi in siciliano echeggiano fra le pietre millenarie del Teatro Greco siciliano. È l'inizio delle Supplici di Eschilo, ma potrebbe sembrare Andrea Camilleri. È una tragedia, ma si evolve tra il recitar cantando, il recitato e cantate vere e proprie, come delle arie liriche di musiche popolari. «È una sorta di Gatta Cenerentola, con la musica che non si ferma mai, tra ritmi maghrebini, melopea greca e folk, tutta siciliana in versi, dimetri greci e la metrica siciliana dell'ottava rima» spiega Mario Incudine, che si è ritagliato il ruolo a lui consono di cantastorie, una sorta di Eschilo che racconta la tragedia.

Il "grande cunto". L'artista ennese è anche l'aiuto di Moni Ovadia, che firma la regia delle Supplici, una delle tragedie nel cartellone della edizione numero 51 della stagione di spettacoli classici dell'Inda, al debutto il prossimo 15 maggio. Dall'incontro tra l'autore di Italia talìa e del drammaturgo e compositore musicale è scaturita l'idea di trasformare la tragedia di Eschilo in un "grande cunto", in cui la musica ha un ruolo portante ed evocativo. Complice di questa folle idea, che già sta facendo storcere il naso ai puristi, Pippo "Kaballà" Rinaldi. «Sono stato chiamato da Mario quando è stato incaricato da Moni per curare l'aiuto regia – racconta Kaballà – Moni è un regista visionario e rivoluzionario e aveva in mente questa idea, abbastanza estrema, di questo "grande cunto" che la tragedia doveva diventare, una sorta di cantata classica però con molti elementi di sicilianità, di folk, di contaminazione, e mi hanno coinvolto per la scrittura in siciliano e la struttura dei cori. Il progetto mi ha incuriosito, perché a me piace sperimentare, muovermi in nuovi campi, dalla canzone pop pura di Eros Ramazzotti a quella d'autore, dalla letteratura alla tragedia greca».

Un azzardo. Un azzardo per la platea conservatrice di Siracusa. «Anche Picasso non fu capito quando dipinse il primo quadro – reagisce Incudine – Moni Ovadia ha il coraggio di andare a scavare all'interno della tragedia. Chi l'ha detto che prima non era cantata? Eschilo, che si trasferì in Sicilia, vedeva molto probabilmente le Supplici come una cantata, non a caso il ruolo principale è del coro. Noi ci riappropriamo della forza strofica del siciliano e applichiamo la forma del teatro popolare e musicale che è quello di Moni Ovadia». Un tradimento totale rispetto alla traduzione di Guido Paduano. «Occorre rivedere il nostro modo di relazionarci con le lingue – interviene Moni Ovadia – Dobbiamo superare la concezione della cultura occidentocentrica e chiederci come parlavano i greci. E da questo cercare di capire che le lingue antiche portano travagli di duemila anni di storia. In un mio spettacolo ho letto poesie di Ignazio Buttitta, che traducevo in italiano e mi rendevo conto che una cosa è dire "mi vergogno" e un'altra "m'affruntu". L'italiano è una lingua meravigliosa, ma noi dobbiamo trovare una materia linguisticosonora che risponda all'energia della tragedia. Non credo che ci sia il rischio di scivolare in farsa. C'è un detto che dice: "Cu tuttu ca sugnu orbu a viru nìura" (anche se sono cieco la vedo nera): fa ridere ma è amaro. E c'è in Sciascia quell'altra battuta di chi a Racalmuto durante il fascismo va a votare e dice al presidente di seggio porgendo la busta elettorale: "Ci sputassi vossia". È il massimo del disincanto, ma provoca una risata».

Una proto–tragedia. Carta bianca, insomma, e ampia libertà nel trasfigurare tutto. Anche agli attori, Donatella Finocchiaro, Angelo Tosto e Marco Guerzoni, catapultato dal musical Notre Dame de Paris al teatro greco. In linea con la filosofia del nuovo sovrintendente Gioacchino Lanza Tomasi, all'insegna dell'innovazione e del cambiamento. «Le tragedie hanno un impianto classico, a volta sono frammentarie, tra l'altro le Supplici sono una proto–tragedia, si dice che sia la prima scritta – riprende Kaballà – Abbiamo seguito di pari passo la dinamica della tragedia, i personaggi, il coro, il re di Argo, le metafore che ci sono all'interno, come quelle di potente attualità della migrazione, dell'accoglimento e della condizione femminile. Ci sono queste cinquanta donne che scappano dall'Egitto rifiutano il matrimonio imposto con i cugini... Naturalmente l'impianto arcaico è trasportato nella simbologia più moderna con queste donne che coperte da un burqa vengono dall'Oriente nella Grecia della democrazia e dell'accoglienza. Queste donne si strapperanno i veli, chiederanno al re ospitalità, che sarà concessa. Poi arriveranno dal mare gli egiziani che tenteranno di rapirle, ma verranno respinti. È la prima tragedia di una trilogia, le due successive, Figli di Egitto e Danaidi, non sono state mai trovate».

Bagnata nel Mediterraneo. «È una tragedia proto–femminista – spiega Incudine – Le donne si ribellano al matrimonio combinato con i cugini e fuggono, ma il tema è soprattutto quello dell'accoglienza. Il re di Argo affida al voto democratico la decisione di aprirle le porte e quando il popolo dice sì, offre le proprie case alle profughe. Noi, invece, ci limitiamo a ospitare i migranti in strutture anonime e rare volte li accogliamo». Una tragedia bagnata nel Mediterraneo, immersa nei problemi e nelle sonorità del Mare Nostrum.

La musica come linguaggio universale. «Con Mario Incudine e il maestro Antonio Vasta abbiamo dato voce a strumenti antichi, contaminadoli con la world music, con la musica siciliana – spiega Kaballà – Gli strumenti evocano l'Oriente: darbuka, bouzouki, mandoloncello, tamburi. Le tragedie sono evocative, durante la traduzione in siciliano, abbiamo avuto difficoltà a dare un senso più dinamico, abbiamo usato il verso ottonario, la tradizione si mescola all'antichità e alla modernità. Abbiamo ritradotto tutto, abbiamo fatto delle cantate come se fosse una tragedia lirica, un'opera dove ci sono i solisti e il coro. Ci sono parti in greco moderno che si accollerà Moni Ovadia, lui è un poliglotta. Una traduzione che si evolve in recitar cantando, recitato e cantate vere e proprie, come delle arie liriche di musiche popolari».



   

 
 



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