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Dybbuk - Rassegna stampa

Le anime di milioni di vittime tornano a cantare l’indicibile

di Giovanni Raboni

Il Corriere della Sera - 18 marzo 1995

 

Meglio dirlo subito: il Dybbuk di Moni Ovadia e Mara Cantoni non è fatto per chi crede che si debba o si possa dimenticare ciò che è successo in Europa mezzo secolo fà. O forse, invece, è fatto proprio per loro: ma come il rimorso è fatto per i colpevoli e la giustizia per gli ingiusti.
Lo spettacolo, che è prodotto (come iprecedenti di Ovadia) dal CRT Artificio, è di quelli che non si raccontano: e non soltanto per le sue caratteristiche strutturali - si tratta, in sostanza, di un ininterrotto rito musicale in cui è la stessa musica a farsi evidenza corporea, immagine e narrazione -, ma anche e soprattutto perché racconta, appunto, ciò che non si può raccontare: la realtà delle deportazioni, dei campi di sterminio, della Shoah: Una realtà che in Oylem Goylem, con cui Ovadia si era imposto nelle scorse stagioni alla nostra ammirazione, vi era presente come un segreto taciuto, o appena alluso, come il non detto che dà senso al detto; e il detto era, là, il frasario della nostalgia e della sopravvivenza, l’identità culturale e religiosa del popolo ebraico difesa con disperata tenacia ma anche con le armi sottili del paradosso e dell’ironia. Mentre in Dybbuk balza essa stessa in primo piano a chiedere, a esigere d’essere testimoniata.
Sono stati i tempi in cui viviamo - tempi di oblii dolosi e colposi - di revisionismo e “sdoganamenti” - o è stato un’evoluzione interiore a dettare questo mutamento? L’una e l’altra cosa, direi. Sulla prima, temo che non occorra spendere parole: tutti l’abbiamo sotto gli occhi. Quanto alla seconda, penso che ogni grande artista (e Ovadia lo è) preceda più o meno gradualmente, nella sua storia espressiva, dai margini al centro, dalle affascinanti ceremonie della reticenza alla “spudoratezza” della verità.
Così è stato in questi anni, ora possiamo rendercene conto, per questo geniale autore-attore-cantante concentrato sino allo spasimo, come su una missione, sui temi che qualcuno o qualcosa ha irrevocabilmente assegnati. Ed eccolo arrivato, così, con l’aiuto congeniale di una compagna di lavoro che giàaltre volte gli era stata accanto, a questo splendido, sconvolgente punto di non ritorno.
Ho già detto che lo spettacolo non si può raccontare; mi limito a suggerirne qualche dato essenziale. Il dybbuk, nella cultura ebraica dell’Est, è “l’anima di un essere umano la cui vita è stata spezzata prematuramente con violenza e che torna a possedere un vivo”; qui, naturalmente, è l’intero popolo della Shoah, rappresentato in scena dallo Sposo e dalla Sposa, entrambi deportati, e da un’orchestra di dodici elementi - una di quelle orchestre che i nazisti organizzavano con gli “ospiti” dei loro campi.
Quanto alla partitura verbale, deriva da una elaborazione di due testi della tradizione letteraria yiddish: un dramma dello scrittore romantico An-ski intitolato appunto Dybbuk, e il Canto del popolo ebreo massacrato del poeta Yitzchak Katzenelson, ucciso ad Auschwitz nel 1944. Le lingue in cui si parla e si canta sono l’ebraico, lo yiddish, il tedesco, l’italiano; ciò che importa capire si capisce, ciò che non si capisce entra ancora più violentemente e irracusabilmente, a mio avviso, nella mente e nell’anima (ma di tutto è disponibile, nel programma di sala, la traduzione).
Ed è inutile dire che oltre ai due Sposi e ai dodici meravigliosi suonatori-attori che dispiace non poter citare un per uno, è continuamente e costitutivamente presente nella veste del “testimone” - che vuol dire anche, si capisce, l’evocatore, la guida, il maestro delle apparizioni, il regista e, soprattutto, il “posseduto”, il vivo nel quale le anime di tutti i morti urgono per entrare - lui, Moni Ovadia: lui con le sue canzoni, le sue invettive, le sue preghiere; lui al centro o ai margini di ogni processione e di ogni liturgia sonora. Sono stati cento minuti di un’emozione continua, quasi insostenibili, senza pausa o lacune; poi, un trionfo.

   

 
 
 

Dybbuk - Rassegna stampa

Sposi per lo sterminio
di Franco Quadri

La Repubblica - 4 aprile 1995

 

Moni Ovadia continua la rivisitazione del teatro ebraico in chiave personale e, con la sua magnifica TheaterOrchestra, ora passa dal divertimento del cabaret al grande requiem. A ispirarlo è Il Dybbuk, il testo scritto dal polacco Shlomo An-ski all’inizio del secolo, divenuto famoso più che per i suoi valori grazie allo spettacolo-capolavoro che ne trasse nel 1920 Vachtangov al Teatro Nabima di Mosca. E una decina d’anni fà Bruce Myers, attore israeliano, ne creò all’interno del gruppo di Peter Brook una rielaborazione per due interpreti destinata a fare il giro del mondo e a rivivere, con Franco Parenti e Lucilla Morlacchi, in quello stesso salone Pier Lombardo che ora ospita e coproduce con il CRT Artificio l’attuale proposta.
Ma in questo contenitore, assai appropriato per il suo aspetto diroccato e fatiscente, il testo originale del dramma serve solo da spunto. Il “dybbuk” è uno spirito sopravvissuto a una violenta fine terrena, che cerca d’impossessarsi di un nuovo corpo: e nella pièce tocca a un fidanzato sfortunato reincarnarsi nella sposa mancata per frustrarne un altro matrimonio. Ora la vicenda si contamina confrontandosi non con una fine singola ma con un’ecatombe, l’Olocausto: dopo le nozze i due sposi vivono la prova terrificante dello sterminio.
Sono infatti loro stessi deportati: dopo il discorso di Hitler che aveva suggellato l’entrata della troupe, dopo il rito festoso dell’unione, il rumore del treno fatale accompagna il girovagare del gruppo sulla scena. Il destino della coppia resta indissolubile da quello dell’orchestra, che indossa le uniforme grigie ed azzerranti del lager.
I versi salvati del testo di An-ski, che Claudia Della Seta e Olek Mincer recitano in yiddish, s’incrociano o si sovrappongono al canto ebraico dei suonatori: ma s’alternano anche ai giambi ritmati che Moni Ovadia ci declama, ci sussurra, c’insuffla in veste di testimone, tratti da un poema di un altro polacco, “Il canto del popolo ebreo massacrato” di Yitzchak Katzenelson, scritto su ordinazione del comitato di resistenza durante la rivolta del ghetto di Varsavia nel ‘43, prima della sua morte a Auschwitz.
Il lirico sconsolato lamento, dalla cronaca tremenda e incredula all’accusa verso il silenzio divino, si riconduce alla coralità di altri esili che hanno costellato la passione del popolo eletto. Moni Ovadia, che ha montato con Mara Cantoni il complesso discorso, disceso dall’alto della gradinata come un sacerdote, lo pronuncia magari aggirandosi col rotolo della Torah come un officiante. E ha luogo un vero cerimoniale, che include anche la festa d’apertura col lungo valzer a piedi nudi o il motivo di “Rosamunda” che scandisce l’incolonnarsi della
lugubre processione carceraria.
Nelle geometrie del coro di vittime condannate al moto perpetuo, avanti e indietro sulla scena tutte assieme e poi via in fila in girotondo senza fine, si possono cogliere suggestioni di Kantor. Ma fa pure capolino il ricordo
dell’orchestrina di ciechi di Raffaele Viviani, una marcia arieggia Brecht e si sente un’eco dei “Mysteries” del Living accanto a una bocca che si spalanca come nell’”Urlo” di Munch; è la nostra cultura - anche quella di chi non è ebreo - accorsa per urlarci la sua impotenza angosciata davanti all’assassinio industrializzato, al rifiuto della ragione.
Le toccanti immagini della sposa che non smette di cercare rifugio nel rito, dietro il suo velo bianco teso, s’assommano e si confondono con quelle dell’orchestra recitante che avanza con le mani in alto fino al proscenio o esegua il suo ultimo pezzo, interrotto dalla mitraglia, con le corde da impiccati a legarne i corpi al
cielo.
Non ci sono parole. E la concomittanza col ritorno in un vicino teatro milanese dell’Istruttoria di Peter Weiss fa pensare che non sia casuale questo riaffiorare trascinante di una memoria che qualcuno vorrebbe cancellare.

   

 
 
 

Dybbuk - Rassegna stampa

La memoria tagliente di Moni
di David Gianetti

la Voce - 18 marzo 1995

 

“Ricordarsi di non dimenticare” sta scritto sul questionario distribuito nel foyer del Teatro Franco Parenti, per un Museo Ebraico dell’Olocausto a Milano. E la memoria è il motivo ispiratore di “Dybbuk”, l’ultimo spettacolo di Moni Ovadia e Mara Cantoni. Dal dramma in quattro atti di Shlomo Rapoport, detto An-ski, e il Canto del popolo ebraico massacrato di Yitzchak Katzenelson, testimone vittima dello streminio nazista. Quel dybbuk della tradizione cabbalistico-chassidica, l’anima di un ussico che per compiere il suo destino s’impossessa del corpo di un vivo. L’anima del poeta morto ad Auschwitz, sul palcoscenico di via Pier
Lombardo. In una scenogarfia ridotta ai cordami, le tavole, i mattoni rossi fornace del teatro, per i dodici musicanti klezmer della TheaterOrchestra. Scalzi, pallidi, l’uniforme grigia dell’orchestrina di Treblinka che agli aguzzini suonava Rosamunda, “la caduta nel kitsch del mito nibelungico”, secondo Moni Ovadia. Il suo urlo funereo a tratti interrompe questo mix di musiche di strada e paraliturgiche, stemperandosi nelle note cantate dai chassidim quando andavano nelle camere a gas. Qui non c’è spettacolo, ma la rielaborazione di un lutto, dolore tutto yiddish, incomunicabile. Come lo si può far capire agli altri? “Cieli che stavate a guardare, cieli azzurri, in voi non c’è nessun Dio!” esclama il poeta-teatrante, quasi blasfemo, rivolgendosi direttamente agli spettatori. Come per chiamarli in causa, perché nessuno è innocente o come diceva Pier Paolo Pasolini “l’innocenza è una colpa”. Rituale di liberazione, questo, non solo per il popolo ebraico, ben oltre la rievocazione storica dell’Olocausto:”Qui i nazisti sono solo echi, voci, la vera domanda - spiega l’attore - è perché l’umanità abbia fatto questo a se stessa”. E gli ebrei secondo Moni Ovadia sono un po’ in tutti noi, “un uomo che cominciò a riflettere sul suo ombelico, costruendo un ethos che è tre quarti del mondo”. Sotto le luci delle lampade, basse, quei cali di tensione così funerei, la musica regala le suggestioni d’un Oriente mitteleuropeo fatto di note tzigane che a tratti sembrano fondersi col canto dei muezzin. Musiche da Scheunenviertel, di quel ghetto “bellissimo” che era la parte migliore di noi. Il cuore di un Europa che non esiste più, Mitteleuropa di transiti, vagabondaggi di confine, indisciplinate flaneurie di apolidi cittadini di una
terra di mezzo, terra di nessuno, anzi, di tutti. Ora non c’è che deserto, un appello di nomi senza risposta, numeri, pianto, la memoria che è un urlo soffocato.
Sul palco entra una coppia di sposi con la valigia in mano. Leah e Chanan, lo sposo predestinato alla morte sentendo che lei avrebbe sposato: sono gli uomini e le donne dei lager e l’umanità intera divisa tra vita e morte, in bilico sui suoi ricordi. Quella memoria che non è morta, passato da conservare nella teca di un museo se non da rimuovere, addirittura: ma un marchio a vita, un fardello di disperazione e speranza di vita per il futuro. Una vitalità dell’arte, insomma. Il modo di Moni Ovadia per rappresentare la memoria.

   

 
 
 

Dybbuk - Rassegna stampa

L'Olocausto urla ancora

di Osvaldo Gurrieri

La Stampa - 9 aprile 1995

 

Non sarà facile dimenticare il "Dybbuk" che Moni Ovadia presenta al Franco Parenti di Milano. Raramente abbiamo assistito a un rito teatrale tanto misterioso e necessario, tanto risentito e struggente, da credere di essere finiti non fra le fascinazioni di un fantasma scenico, ma nel cuore della tragedia

più lunga della Storia. C'è l'Olocausto al centro dello spettacolo ideato da Moni Ovadia e Mara Cantoni e prodotto dal CRT Artificio; c'è l'incubo della Shoah; e c'è la paura che, sulla spinta di assurdi revisionismi, possa smarrirsi il ricordo del più scandaloso fra i genocidi. Era inevitabile che Ovadia arrivasse al "Dybbuk", lo ammette lui stesso. Nella cultura yiddish, il dybbuk indica l'anima inquieta di chi, morto anzitempo e in modo violento, si reincarna per concludere

la propria missione terrena. Ai primi di Novecento, il dybbuk diede il titolo al dramma del russo An-ski. Raccontava di due fidanzati, di lui che si reincarnava in lei per combattere il Male. Opera toccante, ma non un capolavoro. Ovadia e la Cantoni partono proprio da lì, da quel dramma diventato un simbolo della cultura ebraica orientale, ma essi lo reinventano per trasformarlo nell'opopea tragica della deportazione e dello sterminio. Il palcoscenico è quasi nudo. C'è soltanto una pedana con qualche sedia e con dei leggii senza spartiti. In un angolo del proscenio scorgiamo un carrettino su cui sono ammassati alcuni strumenti musicali. Non esistono né quinte né sipario. Il rito memorialistico comincia con l'entrata in scena della TheaterOrchestra, portata a dodici elementi. Indossano tutti casacche grige con la stella di David sul cuore, hanno i piedi nudi o, tutt'al più, infilati in rozzi sandali di tela. Non sono soltanto i magnifici strumentisti di Ovadia, sono la folla immensa sei perseguitati e dei deportati. Arrivano (anch'essi a piedi nudi) lo Sposo e la Sposa, che non riusciranno a celebrare le nozze. Soltanto Ovadia veste di tutto punto. Ma lui, nella circostanza, non è un figlio sventurato di Israele, è il Narratore, è la cosci-

enza storica di ciò che sta per accadere.

E' impossibile descrivere gli avvenimenti del "Dybbuk". Non c'è una vera azione teatrale; piuttosto ci sono frammenti di azioni legate e unificate dalla presenza di Ovadia. Ci troviamo dinanzi a una sorta di "cantata", a una partitura fonico-gestuale dalla quale esplodono minuscoli teatralismi e soprattutto il canto inesauribile, le implorazioni, le indignazioni, i sarcasmi, le malinconie. Mai Ovadia ci è sembrato così grande. Si esprime quasi esclusivamente in yiddish (ma è disponibile un opuscolo con la traduzione italiana), eppure fra le sue labbra, la misteriosità della lingua non è un limite, anzi si incide con la violenza nella coscienza dello spettatore. E quelle sue parole, quei suoi canti, quei suoi frantumi di poemi, di teatro, di scritture profetiche hanno la straordinaria facoltà

di trasformarsi in una sostanza dura, suscitano una drammaticità che i musicanti e gli sposi interpretano come creature dominate da un destino devastatore: sono povere figure vaganti che crollano e si rialzano, si cercano e si perdono, appesa alla vita come le marionette al filo. Ma Ovadia non è il loro marionettista: è la loro voce, anzi il loro dybbuk, che grida e prega e si dispera perchè questa è la sua missione, perchè in qualche modo bisogna combattere, se si deve continuare a vivere: "Quante volte la nostra città è stata distrutta, quanti incendi l'hanno ridotta in cenere, ma la sinagoga è rimasta in piedi...Vivrò, vivrò, vivrò!"

Non c'è un solo cedimento nella serata, non una falla nell'impegno straordinario di Ovadia e dei suoi compagni. Il pubblico appare soggiogato, non osa applaudire neppure le scene di più struggente intensità. Soltanto alla fine prorompe in un entusiasmo irrefrenabile e liberatorio.
   

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