Berel il folle (1993) - Rassegna stampa

 

Quel fannullone in cerca di se stesso

di Ugo Volli

La Repubblica - 1° giugno 1993

 

SETTIMO TORINESE - Nella società ebraica tradizionale, e in particolare in quella dei ghetti e dei villaggi polacchi, nessun lavoro era più considerato dello studio dei testi sacri. In quelle poverissime comunità il sapiente era più apprezzato del ricco e del potente, teneva una corte a volte molto vasta di allievi e la sua sopravvivenza materiale era presa in carico dalla comunità. Ma era difficile essere più poveri di uno studente povero. E se questo studente oltre alla miseria era considerato pazzo e per di più non molto brillante... diventava un ' fannullone' , un Batlen. E' il caso di Berel il folle, come Moni Ovadia traduce ' Der meshugenere Batlen' , il titolo di un racconto di uno dei maestri della letteratura yiddish, Izhak Peretz, che letteralmente vorrebbe dire ' il fannullone sciocco' . In realtà il protagonista Berel Khantches, studente disoccupato condannato dalla sua comunità allo scomodo ruolo di ' meshuge' non è affatto sciocco né davvero pazzo: è piuttosto un giovane intellettuale affamato, delirante e per lo più innamorato, che in una società più dinamica e meno povera di quella dell' ebraismo orientale sarebbe stato classificato sotto le categorie della ' vita di Bohème' o dell' inquietudine giovanile. Berel si pone innanzitutto una domanda radicale, si chiede "chi sono io?", forse sul modello delle discussioni dei sapienti su un' analogo dubbio che Mosé esprime nell' Esodo. Ma la sua risposta è sconcertante, paragonabile solo a quella che Pirandello esporrà vent' anni dopo in ' Uno, nessuno e centomila' : "Io sono tanti, sono quello che vuole andare a pregare e che vuole lavarsi, che vuole sedersi e che vuole andare". Una folla disordinata, incoerente, dove ogni tanto una personalità prende per un attimo il predominio, ma poi è sommersa dalle altre, e così per sempre. Inutile dire che anche gli altri appaiono multipli a Berel, in particolare un ricco mercante che lo nutre e che egli stima e invidia assieme, tanto da dividerlo in un sapiente, un ladro e un malvagio. Su questa base di pensiero, ogni vicenda è impossibile. Berel va a caccia di se stesso per cantine e per soffitte, progetta di ammazzare il suo antagonista (ma solo la parte malvagia di lui, non le altre due), si studia allo specchio, pensa di uccidersi, esprime dei filosofemi complessi e geme di fame, ama disperatamente la moglie del suo avversario e si interroga su di sé. Nel racconto di Perez è un tipo, nello spettacolo di Moni Ovadia (andato in scena al Garybaldi di Settimo Torinese) un pretesto per un atto d' amore e di testimonianza nei confronti della civiltà yiddish. E' da parecchi anni che questo straordinario attore-musicista-drammaturgo lavora sulla cultura ebraica orientale, portando sulle nostre scene musiche, storie, personaggi sorprendenti. Questa volta Moni Ovadia ha rinunciato a essere presente in scena e ha lasciato tutto lo spazio a Olek Mincer, un protagonista molto intenso, che sembra uscito dallo schermo di un film muto, mentre recita, borbotta, canta, impreca, insomma delira in quattro lingue, accompagnato dai musicisti Davide Casali al clarinetto e Alfredo Lacosegliaz al tischklavier, una sorta di arpa orizzontale dal suono assai metallico. La scena semplicissima, una sorta di sottile intelaiatura metallica che allude alla cupola e al labirinto, è illuminata solo dalle fiammelle fioche di un candelabro e di alcune lanterne a petrolio. In questa atmosfera incerta e torbida l' interrogazione psicotica, ma forse metafisica del povero studente affamato e disperato assume una strana realtà, una necessità angosciosa e senza scampo. E' un mondo scomparso che ci viene evocato, un mondo premoderno e in qualche modo gotico, destinato a soccombere anche se non fosse stato sterminato dai nazisti. Ma Ovadia e Mincer riescono a convincerci per un attimo della realtà di quelle categorie sociali e di quella cultura che non esiste più da tempo, ci fanno percepire in senso quasi fisico la claustrofobia di un' esistenza del genere. E insieme rendono plausibile e urgente quell' interrogarsi cartesiano di contenuti e antichissimo di forma: chi sono io? Esiste un' unità della mia vita? Posso spiegarmi a me stesso? E ne vale la pena?
   

facebook © 2011 OYLEM GOYLEM ALL RIGHTS RESERVED  |   P.IVA 13071690153   |   cookies policy

By using this site you agree to the placement of cookies on your computer in accordance with the terms of this policy