Il caso Kafka - Rassegna stampa

 

KAFKA IN PALCOSCENICO LEGGENDO NELLA MEMORIA

di Maria Grazia Gregori

L'Unità - 27 gennaio 1997

 

Fra memoria, senso o, piuttosto, come “vizio delle radici”, prende vita uno degli spettacoli più emozionanti di questi ultimi mesi. È Il caso Kafka, in scena con grande successo al Teatro Studio (fino al 9 febbraio). Responsabili dell’operazione, che prende il titolo da una definizione di Walter Benjamin, sono Moni Ovadia e Roberto Andò che firma una regia di forte impatto evocativo. Che cosa inchioda e affascina, per due ore filate, il pubblico? Innanzi tutto la capacità di questo spettacolo di muoversi su due piani, quello dell’evocazione e quello
dell’identificazione, parlando, dunque, allo stesso tempo, alla mente e al cuore. Un’alchimia formidabile che ci lascia coinvolti e commossi.
Forse, però, la forza maggiore di Il caso Kafka sta nella sua teatralità che si nutre di alcune idee destinate a lasciare un segno. Prima fra tutte quella di avere “inventato” una figura che è testimone silenzioso e affascinato: un Kafka ragazzino interpretato dal giovanissimo e bravissimo Alexandre Vella.
Un Kafka vestito “da grande”, in nero, bombetta in testa e severa redingote, che sembra avere ormai perduto il tempo dei giochi eppure pronto a stupirsi, a riempirsi gli occhi di cielo e di sogni. Ma anche il Kafka della terribile e mai spedita Lettera al padre (qui detta a due voci dal Kafka “grande”, Ovadia e dal Kafka “piccolo”, Vella), segnato dalla paura, dalla fragilità che poi si trasformerà in malattia mortale, perseguitato dai suoi fantasmi e affascinato dal teatro. Del resto è proprio in un luogo dedicato al teatro, il cabaret yiddish del Caffè Savoy di Praga, che ci troviamo. Qui fra tavolini, porte aperte e chiuse (ossessione kafkiana, a partire dalla prima porta chiusa dal padre e lui bambino, fuori, nel buio della notte), fra manichini, bicchieri, scarpe abbandonate per terra a citare le montagne di scarpe lasciate dagli ebrei prima di entrare nelle camere a gas,
si “gioca”, il grande tema della ricerca delle radici. Tutto avviene sotto gli occhi di un vecchio cameriere (Ivo Bucciarelli) che, simbolicamente, fa da buttafuori e da spettatore, insieme al giovane Kafka, di quanto si rappresenta su di un palcoscenico povero, dal sipario rosso fuoco da cui escono i personaggi (fra di essi il bravo Olek Mincer), di un improbabile e un po’guitto teatro yiddish e sul quale si manifesta il talento naturale di Jizchack Löwy, conosciuto dallo scrittore nel 1911 e diventato suo amico: un simbolo di libertà, che nel teatro sembra trovare la sua possibilità di sopravvivenza.
Da questo sipario dei sogni e delle meraviglie escono i personaggi che ritroveremo anni dopo nell’invenzione del Gran Teatro di Oklahoma in America: saltimbanchi, mimi fantastici, orchestrine clownesche e trascinanti, raccolti in un metaforico circo. Da qui, insomma, nasce la folgorazione di un teatro necessario, semplice e vitale, connaturato alla bellezza della lingua yiddish in onore della quale Kafka farà al Savoy, dedicandola a Löwy, la sua unica esibizione pubblica.
Fra citazioni di giochi infantili, guidati da una colonna sonora che ripropone ossessivamente porte che sbattono, la caduta di biglie su di un pavimento e la voce sublime di Bruno Ganz che dice brani dei Diari e dei Quaderni in ottavo in tedesco, mentre delle diapositive, in sovrimpressione, ce ne danno la traduzione, si snoda un rito teatrale che sta tutto nel senso dell’appartenenza anche attraverso l’apprendimento di una lingua (magnifica la scena in cui Ovadia- Löwy la insegna a Kafka che trova le corrispondenze tedesche).
Fra i canti suonati dalla strepitosa Theaterorchestra ai quali dà voce la bravissima Lee Colber, le battute fulminanti da cabaret, che hanno reso famoso Ovadia, si fanno strada le due anime dell’ebraismo: il ricordo-lamento anche ossessivo di ciò che è stato e la ricerca di ciò che potrebbe essere.
Perchè in quel circo magnifico e inquietante che ci dice addio sotto la luce trepida dei riflettori, il magnifico Moni Ovadia, parlandoci delle memoria, creandosi una genealogia fantastica, che lo vede discendente di Löwy
ma anche di Kafka, guarda al futuro.

   
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