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Cabaret yiddish - Rassegna stampa
O mio yiddish bello e perduto
di Giovanni Raboni
Il Corriere della Sera - 5/11/91
Ci si diverte alle caricature, alle battute alle automaldicenze di cui sono cosparse le storielle; ma si passa, con naturalezza da brividi, dalla risata alla commozione, dallo stupore allo sgomento.
Un giorno Eugenio Montale, che pure era, come tutti sanno, un uomo di straordinaria intelligenza, disse una cosa straordinariamente poco intelligente, e cioè che “non si può essere grandi poeti bulgari”. Niente di meno vero, secondo me, tanto nel senso primario dell’affermazione quanto nel senso metaforico di cui Montale sicuramente l’ha caricata. Soprattutto in tempi moderni, la poesia tende spesso a nascere, e a trovare legittimazione e vigore, proprio come difesa di un’identità nazionale minacciata, come sopravvivenza ed esaltazione di un’identità linguistica minoritaria; rovesciando il paradosso, verrebbe dunque voglia di dire che è “più facile”, oggi, e ha comunque più senso, essere poeti in esilio che poeti celebrati in una patria trionfante, scrivere versi nella lingua di un Paese oppresso o negato che nella lingua dei dominatori del mondo... Ripensavo a queste cose assistendo a Oylem Goylem, il bellissimo spettacolo di (e con) Moni Ovadia, prodotto da CRT Artificio, che già mi aveva impressionato l’estate scorsa al Festival di Dro e che mi ha nuovamente affascinato ed emozionato al Franco Parenti, dove ha fatto il suo debutto milanese. E ci ripensavo non tanto perchè Ovadia, pur essendo cresciuto a Milano, è nato appunto in Bulgaria da una famiglia ebrea di complesse e ramificate ascendenze orientali e mitteleuropee, quanto perchè questo suo “vademecum teatrale e musicale” è una sorta di immersione totale nella più minoritaria, perseguitata e minacciata delle culture, la cultura ebraica della diaspora e dell’esilio; e più precisamente in quella parte di essa che si esprime attraverso le sonorità infantili, tenere e strazianti di una lingua insieme antichissima e giovanissima come lo yiddish, e di una musica che sembra farsi dolcemente carico di tutta la nostalgia, la malinconia e la gaiezza del mondo come lo klezmer, la musica tradizionale (a far tempo dal XVI secolo) degli ebrei dell’Est europeo. Non si può immaginare struttura più semplice e “povera” e al tempo stesso più compiutamente e, come dire? solennemente appropriata, di quella che Ovadia ha immaginato per il suo spettacolo: una sorta di di cabaret rituale in cui il massimo dell’affatibilità comunicativa sa congiungersi con una lancinante tensione etica ed espressiva. Circondato da cinque strumentisti, l’autore-interprete alterna l’esecuzione delle canzoni klezmer al racconto di storielle amabilmente feroci tratte dall’irresistibile repertorio umoristico ebraico, alla lettura di brani dotti o sublimi, alla citazione di vertiginosi frammenti di memoria e di saggezza; e di tanto in tanto si siede, scivola nell’ombra, lascia la parola agli strumenti...Non solo un attimo di distrazione o stanchezza mi è parso insinuarsi, l’altra sera, fra palcoscenico e platea: effetto di un carisma scenico e di una pienezza ed integrità di senso a proposito dei quali mi piace ripetere qui quello che mi è capitato di sentir dire di Ovadia (che aveva collaborato ai suoi ultimi spettacoli, e che per più di un aspetto mi sembra in grado di raccoglierne l’eredità) dal grande Tadeusz Kantor: “C’est génial”. Ci si diverte (e molto) alle battute, alle esilaranti caricature, imitazioni e “automaldicenze” di cui sono cosparse le storielle; ma si passa, con una naturalezza da brividi, dalla risata alla commozione e allo sgomento quando, per esempio, Ovadia legge, dondolandosi come in preghiera, i versi di Carolus Cergoly dedicati ai morti della Risiera, o quando in una canzone di cui non capiamo le parole afferriamo però con tranquilla, terribile certezza due nomi: Auschwitz, Treblinka. E alla fine ci si rende conto di essere stati ammessi - per una sera e, forse, per sempre - allo spirito di una cultura capace come nessun’altra di farci familiarizzare con l’assoluto stemperando con infinita pazienza e tolleranza il tragico nel comico e il soprannaturale nel quotidiano. E’ stato, la sera della prima, un autentico trionfo, con una corrispondenza ininterrotta da parte del pubblico per l’intera durata dello spettacolo (poco meno di 2 ore) e un’interminabile applauso finale per Ovadia e i suoi magnifici collaboratori. I nomi: Maurizio Dehò (violino), Cosimo Gallotta (chitarra), Alfredo Lacosegliaz (percussioni), Gian Pietro Marazza (fisarmonica), Patrick Novara (fiati). Ricordo che di Dehò e di Marazza è l’elaborazione delle musiche. Ad Amerigo Varesi e Massimo Di Rollo si devono direzione del suono e luci.
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