La necrosi cronica del senso
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  La vicenda dell'acciaieria Ilva di Taranto, al di là dei suoi problemi concreti, drammatici e incombenti a partire dall'aggressione alla salute dei cittadini, la perdita dell'occupazione, l'angoscia delle famiglie per l'una e l'altra ferita inferta alle vita e alla dignità, pone una questione simbolica e culturale di gravissima portata. Una società che lascia crescere nel proprio tessuto la cultura di morte e propone uno scambio perverso in forma di ricatto fra diritto alla salute e diritto al lavoro, è una società malata di una patologia gravissima e ripugnante. In questo paese che ama ridicolmente definirsi un paese di brava gente, tante "persone per bene" sguazzano nella corruzione, nella malversazione, nell'abuso, nello spreco di fiumi di denaro pubblico per arricchimento privato, la malavita organizzata scorrazza in ogni settore della vita economica e, per sovramercato, galantuomini riveriti come rispettabili imprenditori, hanno ammorbato per anni l'aria e l'ecosistema di intere città e territori, senza che nessuno glielo impedisse. Le istituzioni pubbliche non hanno vigilato, non hanno saputo impedire che cittadini fossero avvelenati con sostanze che condannano a morte. Ma che razza di pseudo democrazia è questa che da la priorità alle controversie mediatiche invece che alle questioni della vita e della morte? Naturalmente il governo dei "tecnici", pressato dal rischio di un'esplosione sociale, cercherà di mettere una pezza a tutto questo ma c'è da giurarci che la falla si aprirà da un'altra parte. Perché non c'è all'orizzonte nessun modello di società equa che riconosca le priorità strategiche, che si occupi di esseri umani invece che di parametri economici. Il carrozzone televisivo, dal canto suo, si nutre delle emergenze, le porta in primo piano per qualche giorno o per qualche ora. L'attenzione è spasmodica, i divani delle nostre case trasudano indignazione, ma l'indignazione si nutre e si appaga di se stessa. Passato qualche altro giorno, quell'emergenza passa in secondo piano per cedere il posto ad un'emergenza più fresca per poi finire sullo sfondo con i riflettori spenti ma con i disagi e le sofferenze sempre accesi. Questo meccanismo si autoriproduce come una macchina celibe a prescindere dalle intenzioni che possono anche essere le migliori e i problemi che mordono le vite delle donne e degli uomini veri rimangono inalterati. Non c'è via d'uscita se si rimane in questo circolo vizioso che si perpetua alternando eccitazioni a sfoghi. Senza un progetto di ampio respiro culturale e politico, questo stato di cose si cronicizzerà ulteriormente producendo una perniciosa assuefazione in ogni strato della società confinando le alternative possibili alla marginalità.

 

Moni Ovadia - L'Unità  -  6/12/2012

 

 

 

 

   
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