Il mio agnosticismo poetico e sentimentale
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Il mio approdo sui lidi dell'agnosticismo, è l'esito di un viaggio di pensiero e di ricerca interiore molto lungo, contraddittorio e spesso paradossale. La ragione di un approccio non lineare alla non appartenenza religiosa, per quanto attiene alla mia stretta esperienza personale, risiede principalmente nel fatto di essere nato in una famiglia di origine ebraica e di essere nato nel tempo della primissima generazione immediatamente successiva alla Shoà. Su di noi incombeva la questione identitaria e, l'identità ebraica, emerge nel quadro di una rivelazione divina. Sono venuto alla luce nell'aprile del 1946 a Plovdiv in Bulgaria. I miei genitori, entrambi ebrei sefarditi (di discendenza ispanica), provenivano - attraverso le generazioni - da quel ceppo originario e ne parlavano ancora l'antica lingua di esilio, il giudaico-spagnolo. Mia madre e mio padre non erano certo degli ebrei ortodossi e, tutto sommato, non erano neppure religiosi, non rispettavano le minuziosissime norme della precettistica dietetica e rituale ebraica, non pregavano, non erano degli shomrim shabbath (custodi del sabato) ma erano a loro modo tradizionalisti, all'acqua di rose nella forma, estremi in una certa sostanza.
A casa festeggiavamo tre feste ebraiche: Rosh Hashanah (il capodanno), Yom Kippur (il giorno del digiuno e della remissione dei peccati) e la prima sera del Pesach (la cosiddetta pasqua ebraica, in realtà la festa che ricorda e celebra, la liberazione dalla schiavitù in Egitto). In quella sera, la cena pasquale consisteva in azzime, uova colorate col caffè, e agnello. Mio padre, che peraltro parlava un eccellente ebraico, leggeva l'haggadà, il libro che narra della schiavitù, della chiamata di Mosè, dell'uscita dall'Egitto, dell'apertura del Mar Rosso, delle piaghe e via dicendo. Il festeggiamento era di routine e si svolgeva solo all'interno della nostra piccola famiglia: papà, mamma, mio fratello Sami ed io. Non c'era nessuna magia, non vi partecipavano nessun parente, nessun invitato o viandante, il rito procedeva senza emozioni. Solo i passaggi rituali, spiegati in giudaico-spagnolo, hanno suscitato in me una memoria affettiva ed esclusivamente grazie a quella lingua esule e meticcia. L'esperienza della persecuzione antisemita prima e l'incubo immediatamente successivo del regime staliniano, aveva portato i miei a chiudersi in una rassicurante esistenza piccolo borghese. L'arrivo in Italia, paese del quale eravamo legalmente cittadini, non cambiò le cose. Il Pesach, nella sua pienezza, è entrato nella mia vita di agnostico, dopo i cinquant'anni e lo devo al rispetto e all'impegno di mia moglie Elisa, non ebrea e atea natural born. La catechesi ebraica dei miei genitori rimase sempre basata su tre assiomi: siamo buoni ebrei perché ci teniamo ad esserlo, perché mandiamo i figli alla scuola ebraica ma soprattutto perché vogliamo bene ad Israele (lo Stato si intende). E scuola a parte, l'unico rudimento di formazione ebraica di cui si presero un po' cura, fu la mia maggiorità religiosa. Mi fecero infatti studiare per divenire a 13 anni, Bar Mitzwah, figlio del precetto, ovvero ebraicamente adulto e responsabile. Non posso dimenticare tuttavia che, mentre si svolgeva la mia "iniziazione" nella sinagoga, prima di leggere con cantillazione il brano della Toràh che mi spettava, volsi un fugace sguardo verso mio padre che sedeva fra i congreganti e vidi che prendeva appunti per il suo lavoro in un piccolo taccuino. Non l'aveva fatto per mancanza di sensibilità, ne sono sicuro, era solo che per lui, mantenere la famiglia con decenza, era in quel tempo un impegno totale assai gravoso ed era anche la sua Weltanschauung nella vita. Però quell'episodio apparentemente irrilevante, impresse in me un'eco di scetticismo riguardo ad un possibile sentimento religioso. Più tardi, ritrovai nella memorabile "Lettera al padre" di Franz Kafka, la stessa risonanza negativa di fronte al rito sinagogale svuotato di senso a cui suo padre lo costringeva ad assistere.
La scuola ebraica di Milano, dal canto suo, non fece nulla per correggere in me le impressioni negative maturate in ambito familiare. Intendiamoci, nella stagione in cui la frequentai, era un ottima scuola parificata, con alcuni insegnanti straordinari. Era, in una certa misura, gloriosa perché nata a causa delle infami leggi razziali del nazismo. I due villini di una bella zona residenziale in cui era sita, erano molto abitati dalla cultura antifascista, ma tutto ciò limitatamente a quanto atteneva al suo essere una scuola italiana con i programmi di tutte le altre buone scuole pubbliche e con il surplus del clima di un'ebraicità cosmopolita. Ma per quanto atteneva all'ebraismo stictu sensu, mi comunicò solo vuoto formalismo ed irritante normatività che, per una natura ribelle come la mia, era intollerabile, considerando anche che la memoria del totalitarismo nazifascista era allora dolorosamente immediata. Oltre ai normali programmi ministeriali, avevamo cinque ore di ebraico alla settimana, ma quelle lezioni invece di stimolarmi ad entrare nelle profondità vertiginose del pensiero e dell'ethos di una delle più grandi spiritualità di ogni tempo, erano occasioni di scialo e di vacuità. Inoltre mi sentivo ripetutamente intimare, sia in classe sia nei corridoi, in un ebraico da internato scolastico, questo secco comando: "kippà al harosh!" che significa "zucchetto sulla testa!", scoprendo molti anni dopo, che stare sempre col capo coperto, non è neppure un precetto ma una tradizione identitaria. Dunque, mentre l'educazione ebraica mi scivolava addosso fastidiosamente, la questione dell'identità e il suo senso, rimanevano latenti e mi si sarebbero riproposti per vie eterodosse molto più tardi. L'impronta educativa forte e decisiva alla quale "involontariamente" la scuola ebraica di Milano mi ha iniziato, è stata quella del marxismo e con esso ha fatto irruzione nel repertorio delle idee che mi hanno affascinato, l'ateismo. Questo primo fondamentale incontro, ebbe luogo a seguito dell'istallazione degli altoparlanti in tutte le classi. Il Grande Fratello della presidenza, di cui era per altro titolare il sapiente e bonario professor Davide Schaumann, voleva fare sentire la sua presenza ebraicamente normativa, disciplinare e informativa, in ogni momento che avesse ritenuto necessario. Non la prendemmo bene. Gli altoparlanti hanno inevitabilmente un che di concentrazionario anche se sono altoparlanti ebraici. Tuttavia, ogni medaglia ha il suo rovescio. Grazie a quella rudimentale tecnologia del suono, in prossimità del mio quindicesimo 25 Aprile, ebbi modo di ascoltare una commemorazione della Resistenza. Fu un'epifania. La voce e le parole erano quelle del nostro professore di storia Luciano Segre che raccontava di una guerra rivoluzionaria contro la più atroce tirannia di ogni tempo, che aveva avuto come protagonisti lavoratori, intellettuali, artigiani e aveva assistito all'irruzione delle donne nella storia. Divenni antifascista in quel momento e lo sono tutt'oggi. Il professor Segre, già assistente del grande storico marxista Auguste Cornu alla Sorbonne di Parigi, lettore di Storia Economica del Settecento nelle Università della DDR di Jena e Lipsia, Libero Docente della stessa materia all'Università Bocconi di Milano, fu il mio primo Maestro. Le sue memorabili lezioni sull'Illuminismo e sulla Rivoluzione Francese, formarono la base della mia coscienza politica, sociale e civile.
La Scuola ebraica di Milano, che doveva fare di me un bravo ragazzo ebreo e magari religioso, mi diede i primi rudimenti costitutivi di marxismo e mi portò verso l'ateismo. Ma non solo. Gli anni del liceo mi diedero l'opportunità di stabilire altre relazioni importanti, fra queste una in particolare doveva influenzare con forza il mio futuro. Il mio insegnante di ginnastica, il professor Loris Rosenholz, tutt'oggi mio grande amico, era una singolare figura di pedagogo. Di formazione insegnante elementare e psicologo, era stato confinato all'insegnamento ginnico, a causa delle sue avanzate idee considerate "sovversive". Rosenholz aggregò intorno a sé alcuni giovani intellettualmente curiosi fra i quali c'ero anch'io e aprì lo straodinario scrigno della sua vastissima discoteca di musiche tradizionali del mondo, costituita da LP, delle più prestigiose case discografiche di quel settore: Folkways, Chant du monde, Unesco, Argo, Dischi del Sole, Harmonia Mundi. Entrare in contatto con quel caleidoscopio di suoni, fu una folgorazione. Scoprii attraverso i canti di contadini, marinai, pastori, braccianti, operai, minatori, donne e uomini, i valori di una cultura "in risposta" (per usare l'espressione di Franco Fortini) naturalmente antagonista al potere. Anche grazie a quel sapere, ebbi la conferma che le grandi istituzioni religiose spessissimo facevano parte di quel potere tirannico che opprimeva le classi "subalterne", anzi, forniva la più perversa delle legittimazioni: la volontà divina, a tirannidi, regimi reazionari e ultraconservatori, ma anche all'idolatria del denaro. Le eccezioni, anche importanti, si manifestano prevalentemente fra le comunità sacerdotali vicine agli umili - o laddove una religione si trovi in condizioni di estrema minoranza - quando il diritto alla fede è perseguitato. Comunque, il rifiuto nei confronti della religione come istituto di potere e di controllo, crebbe e motivò ulteriormente il mio ateismo. La scoperta delle culture tradizionali mi aprì inoltre la possibilità di coniugare la passione politica e l'impegno civile con la vocazione artistica. Imboccando questo cammino, feci un nuovo incontro che si rivelò "fatale". Entrai in contatto con la canzone yiddish e con la musica klezmer e grazie ad esse, iniziai una navigazione rapsodica nel mare del Ostjudentum, la cultura ebraica del Centro Est Europa, dove per secoli, aveva respirato l'arcipelago della Yiddishkeit e prima di essere inghiottito dallo tzunami della ferocia nazifascista, era stato abitato da un'umanità sublime, eroicamente fragile, struggente. Quel mondo, fra le sue molteplici manifestazioni caratteristiche, ne conosceva una assai singolare: militava nei movimenti rivoluzionari e radicali del movimento operaio, comunisti, socialisti anarchici di quelle terre un'impressionante percentuale di ebrei provenienti sia dall'intellighenzia, che dai ceti umili. La popolazione ebraica di quella diaspora, per prima aveva dato vita, nei territori dello zar e dei confini orientali dell'impero absburgico, ad un movimento rivoluzionario, il Bund, la lega degli operai ebrei di Russia e di Polonia. Questo fatto poneva una domanda inevitabile: al di là della risposta alla persecuzione e all'emarginazione, cosa legava l'ebraismo al Socialismo e alla Rivoluzione? L'uscita dall'Egitto fu il primo progetto e successivo paradigma di rivoluzione dal basso. Un popolo di schiavi, di stranieri meticci, di sbandati, di habiru (ladri, contrabbandieri, ruffiani, prostitute, sovversivi) aggregati intorno ad un'avanguardia, gli israeliti e guidati da un profeta balbuziente (Mosè), transfuga dal potere che ha fatto il pastore (mestiere per donne e bambini) per sessant'anni, travolge con una forza cruenta - piaghe, flagelli, ecatombe di animali e di esseri umani (gli egizi) - il più grande potere dell'epoca, il Faraone. Ma la religione cosa c'entra? Molti maestri sostengono che l'ebraismo non sia una religione ma piuttosto un'ortoprassi. Fra gli ebrei ortodossi si incontrano atei dichiarati. Certo la religione fa parte di quel modello di vita, di ethos, di legalità e di comportamenti, ma personalmente ritengo che sia di fatto una modalità di riconoscimento identitario necessario alla fragilità umana. E quel mitico Dio della rivelazione? Il Dio della "teofonia" di Abramo, è il divino che chiama alla più radicale antiidolatria. Non si vede, dimora dovunque e da nessuna parte, la sua voce si intuisce nel silenzio, dialoga con i cortocircuiti nelle parole di un pastore molto balbuziente, ha un nome che non si può pronunziare e da un roveto ardente presenta se stesso come "sarò che sarò".
I sapienti più radicali del khassidismo, il movimento mistico pietistico dell'ebraismo est europeo, interrogando la Kabalah, suggeriscono che, dopo la creazione del Mondo, il Santo Benedetto si sia contratto in uno spazio altro senza lasciare tracce e che volendolo cercare, lo si possa fare solo nella sua assenza. Questi khassidim non avevano difficoltà a celebrare l'ateismo con narrazioni paradossali:,"Rabbi Moishe Löb di Sassov, si chiedeva perché mai l'Eterno avesse creato l'ateismo. E dopo averci riflettuto a lungo si rispose: il buon ateismo ha la sua elevazione nell'atto dell'accoglienza. Se un uomo povero, disperato, malato e perseguitato viene da te per essere soccorso, tu non devi fare come i baciapile e rispondergli di rimettere la sua pena nelle mani di Dio, ma devi comportarti come se Dio non esistesse e come se nel mondo ci fosse una sola creatura che può aiutare quell'uomo e quella creatura sei tu e solo tu".
Un grande filosofo ispirato da questa mistica, invitava a riconoscere le ragioni dell'ateismo: "Sulla strada che porta al Dio unico, c'è una stazione senza Dio. Il vero monoteismo ha il dovere di rispondere alle legittime esigenze dell'ateismo. Un Dio per adulti si manifesta per l'appunto attraverso il vuoto del cielo infantile".*
Il poeta Katzenelson, estremo Giobbe, di fronte alla voragine del crimine assoluto, è dolorosamente definitivo, quando urla e sussura questo verso disperato: "E' bene che un Dio non esista anche se fa così male stare senza di Lui".
Il mio legame originario con l'ebraismo, ha trovato in questi ardimenti di una spiritualità allusivamente ateista, un suo senso come respiro particolare di un'identità molteplice e questo respiro, mi ha sospinto progressivamente verso il "limbo" di un agnosticismo poetico e sentimentale.

* E. Levinas: "Amare la Torà più di Dio"


 

 

   
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